Tradurre in Gallurese

Quando muore una lingua, muore con essa un mondo possibile. In questo non c’è sopravvivenza dei più forti. Persino quando è parlata soltanto da una manciata di persone, dai sopravvissuti perseguitati di comunità sterminate, una lingua contiene in sé il potenziale illimitato di scoperta, di ri-composizioni della realtà, di sogni strutturati che noi chiamiamo miti, poesia, ipotesi metafisiche e discorso giuridico. (Steiner)

Ho voluto iniziare questa riflessione sulla lingua Gallurese citando un libro fondamentale per qualunque traduttore, Dopo Babele, del grande linguista George Steiner. Chiaramente non intendo affermare che la nostra sia una lingua in via di estinzione come quella parlata da una manciata di sopravvissuti allo sterminio di una comunità; se ci pensiamo bene, però, la nostra comunità e la nostra lingua subiscono ugualmente un deterioramento inesorabile, dovuto a fattori che si presentano molto più diluiti nel tempo e nella forma. Forse tutto ciò è meno brutale di un attacco programmato e palese, ma è in grado di portare lo stesso all’estinzione la lingua, e dunque alla perdita irrimediabile del patrimonio culturale che essa esprime, rendendolo del tutto accettabile dalla maggior parte di noi perché avvertito come inarrestabile. Continue reading “Tradurre in Gallurese”

Letture / Miele amaro (Salvatore Cambosu)

La copertina dell'edizione Ilisso

Spesso la volontà non gioca alcun ruolo nello scegliere quale sarà il prossimo libro che leggeremo. Certe volte basta una suggestione, un consiglio che uno sconosciuto dà a un nostro amico, magari origliato per caso; altre, è sufficiente la coincidenza di inciampare un paio di volte nello stesso titolo, nell’arco della stessa giornata; casualità insomma, raccomandazioni di terza mano. È un po’ così che quest’estate mi sono accorto dell’esistenza di Miele amaro. Un titolo già sentito, certo, ma di cui ignoravo completamente il contenuto.

Era luglio o agosto, e a tarda notte Flavio Soriga leggeva in piazza il diario del festival di Berchidda. O forse era il festival dell’Argentiera, ed era a metà serata. Comunque: Soriga raccontava di quella volta che trovò in libreria Miele amaro, e fu colpito dalla scritta sulla strisciolina di carta – quella che si mette intorno alla copertina dei libri, e generalmente contiene il commento di un recensore o qualche frase ad effetto estrapolata dal testo. Sul libro di Cambosu c’era un monito di Michelangelo Pira, che invitava il lettore a prendere molto seriamente la copia che teneva fra le mani: intimava al futuro lettore un atteggiamento di rispetto sacro, prima ancora di aprire la copertina. Diceva così:

“Chi tocca questo libro tocca un popolo.”

Miele amaro è una scatola di latta, un cofanetto in cui Cambosu ha riposto con cura e passione i ritagli e le memorie di una vita – o piuttosto di una storia, quella della Sardegna, che viene consegnata al lettore in frammenti sparsi ma eloquenti, in poesie e brevi racconti, a volte molto distanti fra loro, ma che allo stesso tempo si intrecciano e riescono a giustificare da soli le ragioni del forte legame che li unisce per farne un’unica storia, un mosaico scritto in tutte le nostre lingue.

L’autore racconta da ogni lato la tradizione sarda senza pretese di esaustività, e alterna in continuazione le memorie del passato, che sembra ormai concluso e irrecuperabile, a momenti in cui ad averla vinta è la tensione verso un futuro che ancora non si è pienamente realizzato. Miele amaro è un libro che ospita le profezie scritte per un tempo che verrà (Profezia, p. 80), che vedrà arrivare il popolo al suo riscatto, ma allo stesso tempo offre riparo a racconti amari, i cui protagonisti sono fantasmi che non riconoscono più ciò che la Sardegna è diventata nel tempo, o giovani che si spengono in uno sguardo di rassegnazione, condannati ad assistere al declino di quella storia di cui, da quel momento in poi, si ritroveranno ad essere soltanto degli spettatori.

“A una svolta ella chiese al fanciullo che cosa ne fosse stato di una casa lontana, dove egli era cresciuto, e che ella aveva conosciuta da ragazza: una di quelle case padronali piene d’abbondanza, di servi e di mendicanti. Quella casa era quasi un ricordo: era come sparita insieme con i grandi banditi e le epiche bardane, con gli amuleti e i fattucchieri, e i cercatori pazzi di tesori, e gli esodi migratori, e le diligenze lente e avventurose, e gli alibi raccomandati alla velocità dei cavalli. Da poco era arrivato il fustagno, con le cotonine e le tele stampate. Rara la cambiale e la bancarotta, sacra la parola data. A ogni ovile si poteva ricevere ancora pane e companatico, e un posto accanto al fuoco, e la stuoia; ma già l’usanza era minacciata dall’avvento dei caseifici e dei treni.

Il fanciullo, timido e malinconico di natura, le rispose con uno sguardo, nel quale ella lesse forse un nascente rimpianto di un mondo che tramontava e lo consolò con una carezza e un sorriso di luna.” (Ricordo di Cosima, pp. 229-230)

Salvatore Cambosu, Miele amaro, Nuoro, Ilisso, 2004.
> scaricalo da sardegnadigitallibrary.it

L’ospite moro

In ube b’hat istranzu / mancari malu / b’est Deus.
Dove c’è un ospite / anche non degno / lì c’è Dio.

Alle prime luci dell’alba i mori pirati, che erano stati segnalati in tempo dalle torri costiere, furono rotti e gettati a mare. I pochi che, nella confusione della mischia, erano riusciti ad accostarsi alle case, erano, ora, senza vita, sparsi nella campagna che si rischiarava.

Nelle case gli uomini stavano accanto al fuoco, ancora in armi; e attendevano da un momento all’altro l’arrivo delle loro donne e dei loro figli che nella notte avevano messi al sicuro nella boscaglia vicina, e che avevano mandato a chiamare. Nessun morto da piangere; soltanto due feriti leggeri.

I galli si rispondevano. Il fremere della boscaglia sembrava l’eco del mare vicino. A un tratto un cane abbaiò. Era un moro che si lasciò cadere alla porta di Gaspare Noina, che era uno dei due feriti. Si era trascinato fin là e non ci vedeva più; non ci sentiva più, per il sangue che aveva perduto. Era così nero che non sembravano nere le sue rosse ferite. Si lamentava debolmente e, così disteso bocconi, faceva ogni tanto l’atto di remare.

Gaspare Noina, bendato, si alzò per respingerlo col piede. Ma un vecchio asciutto con mossa rapida gli afferrò un braccio e disse: – È un ospite, prima di essere un nemico. Gaspare si fermò. Il fuoco si ravvivò da solo: e la stanza s’illuminò. Ma era soltanto l’aurora che entrava. Il ferito era fermo ormai, non remava più, non c’era più. Allora si scoprirono tutti e si segnarono. Poi lo sollevarono e lo misero in un sacco e, come volle il vecchio, lo seppellirono nell’angolo sconsacrato del loro cimitero.

Piange l’animale, ma io non gli dirò…

… questo Mugahîd mosse alla volta delle isole orientali della Spagna, vaste e fertili isole; le quali egli occupò e tennele fortemente. Da quelle, poi, col navilio assaltò la Sardegna, grande isola dei Rûm, l’anno quattrocentosei o quattrocentosette (giugno 1015-maggio 1017); insignorissi della più parte di cotesta isola e ne espugnò le fortezze. Alienandosi intanto da lui gli animi del suo gund (milizia) e sopravvenendo rinforzi dei Rûm, egli si proponeva di abbandonare la Sardegna, ansioso [di tornare in Spagna e] disperdere [i nemici] che cospiravano contro di lui, quando i Rûm gli piombarono addosso e presero la più parte delle sue navi.

Io tengo da Abû ’al Hasan Nugabah ibn Yahya la seguente narrazione, ch’egli aveva sentita da Sarîh ibn Muhammad al Gurgâni. Io mi trovai, dicea [quest’ultimo] con Abû ’al Gays Mugahîd nella guerra di Sardegna. Egli era entrato con le navi [in un porto] dell’isola contro l’espresso ammonimento del suo primo pilota Abu Harûb, quando ecco levarsi un vento che ad una ad una gittò le nostre navi a terra; dove i Rûm non avean altra briga che di pigliare i nostri e ammazzarli. Ad ogni nave che vedea cadere nelle loro mani, Mugahîd rompeva in altissimo pianto; non potendo, né egli, né altr’uomo al mondo, dare aiuto ai musulmani in quel furor del mare e dei venti. Allora Abu Harûbci si fece incontro recitando questo verso: «Piange l’animale, ma io non gli dirò: Dio ti consoli; no, che quest’animale piange per dappocaggine». E continuava Abu Harûb: – Io l’avvertii bene di non ficcarsi qui; ma non mi dié retta –. Qui finisce la citazione di Al Gurgâni.

Dal libro Bugîat al Muqtabis di Ad Dabbî (sec. XII), versione dell’Amari.

 

  • Salvatore Cambosu (2004) Miele Amaro, Nuoro, Ilisso, pp. 112-113. Scaricalo da qui.
  • L’immagine appartiene alla collezione Molti, di Antonio Biasiucci. Questa è la sua pagina sul sito del museo MADRE di Napoli.