Tradurre in Gallurese

Quando muore una lingua, muore con essa un mondo possibile. In questo non c’è sopravvivenza dei più forti. Persino quando è parlata soltanto da una manciata di persone, dai sopravvissuti perseguitati di comunità sterminate, una lingua contiene in sé il potenziale illimitato di scoperta, di ri-composizioni della realtà, di sogni strutturati che noi chiamiamo miti, poesia, ipotesi metafisiche e discorso giuridico. (Steiner)

Ho voluto iniziare questa riflessione sulla lingua Gallurese citando un libro fondamentale per qualunque traduttore, Dopo Babele, del grande linguista George Steiner. Chiaramente non intendo affermare che la nostra sia una lingua in via di estinzione come quella parlata da una manciata di sopravvissuti allo sterminio di una comunità; se ci pensiamo bene, però, la nostra comunità e la nostra lingua subiscono ugualmente un deterioramento inesorabile, dovuto a fattori che si presentano molto più diluiti nel tempo e nella forma. Forse tutto ciò è meno brutale di un attacco programmato e palese, ma è in grado di portare lo stesso all’estinzione la lingua, e dunque alla perdita irrimediabile del patrimonio culturale che essa esprime, rendendolo del tutto accettabile dalla maggior parte di noi perché avvertito come inarrestabile.

Con una lingua non muore solo un dizionario o qualche modo dire: è la possibilità stessa di rappresentare un mondo unico e differente che viene a mancare, e questo è uno dei temi principali di Dopo Babele. In questo breve post voglio parlare di come io ho deciso (nel mio piccolo, e senza la presunzione di voler fare qualcosa di risolutivo) di affrontare la scomparsa progressiva della lingua Gallurese con un’operazione che mi diverte moltissimo e che mi permette di imparare un’infinità di cose: la traduzione dei classici della letteratura.

Il Gallurese, così come il Sardo nelle sue varietà, è una lingua che storicamente si è prestata poco alla prosa letteraria, con l’unica eccezione della prosa ecclesiastica. I sardi, infatti, “hanno sempre usato la lingua sarda solo per la poesia, mentre per la prosa hanno utilizzato la lingua del dominatore – spagnolo e italiano” (Wagner). Così anche in Gallura è fiorita una tradizione di poeti popolari, soprattutto a metà dell’ottocento (Pétr’alluttu, Préti Mical’Andria, Ghjasèppa di Scanu, Curruléddu), ma di prosatori neanche l’ombra. È da notare che la classe culturale che ruotava intorno alla produzione poetica proveniva spesso da ambienti ecclesiastici.

L’inutilizzo del Gallurese come lingua scritta fa sì che ancora oggi, per il parlante madrelingua medio, la lettura di un testo risulti bizzarra e difficoltosa. Le poesie vengono lette un po’ a tentoni, inciampando fra le righe, perché la parola scritta non è collegata facilmente a quel suono che invece è così familiare nella lingua parlata. Questa inadeguatezza pratica del Gallurese (come delle altre lingue della Sardegna) si è aggravata terribilmente nel secolo scorso, con la diffusione della scolarizzazione, e ha subìto un colpo mortale con l’arrivo delle radio e delle tv nelle case, e dunque con l’italianizzazione della Sardegna. Credo valga la pena ricordare che il Gallurese era la lingua materna fino a qualche decennio fa, e in molti casi lo è ancora: l’attuale “declassamento” a dialetto non è altro che una situazione indotta dalla diffusione dell’italiano. Le condizioni che determinano lo status di lingua o dialetto sono di natura più politica che tecnica, come sappiamo.

Sebbene gran parte della popolazione fosse analfabeta e non venisse insegnato in nessuna scuola, il Gallurese ha avuto sempre un’ordinamento strutturato e versatile, un sistema grammaticale molto più solido di quanto non lo sia ora, e questo presso i parlanti di tutte le fasce sociali. Secondo le statistiche nel 1861 il 91% dei sardi era analfabeta, dunque utilizzava soltanto la lingua locale. Nel 1951 la quota era scesa al 22%.

Tutte le lingue si evolvono nel tempo e al contatto con le altre culture, e spesso è molto difficile distinguere fra l’introduzione di una variante “giusta” o “sbagliata”. Nel Gallurese sono riconoscibili prestiti che risalgono alle dominazioni passate, e spesso si trovano prestiti di seconda mano, modellati nel corso del tempo dal passaggio per diversi continenti. È impossibile stabilire a tavolino se un termine straniero debba essere tradotto o meno nella lingua che lo accoglie, e ogni cultura si comporta in modo diverso nei confronti dei prestiti da altre lingue. Per questo è spesso scivoloso fare i “puristi”, e definire estraneo al Gallurese un termine italiano galluresizzato se questo è entrato ormai nel linguaggio comune, magari rimpiazzando una parola antica, o specificandone il significato generico. Chiaramente questo discorso è più difficile da accettare nel caso in cui alcuni termini specifici, che descrivono precisamente la realtà, vengono sostituiti da calchi presi dall’italiano, spesso per inerzia, sia a livello lessicale che sintattico.

Lu ‘Indiolu di Parafulmini

Nei periodici locali è molto diffusa la pratica di raccogliere degli elenchi di parole antiche, che fanno parte del lessico di un Gallurese ormai dimenticato, allo scopo di contrastare il declino che è sotto gli occhi di tutti. È un vero peccato che certi vocaboli si siano dimenticati, e su questo siamo tutti d’accordo; ma anziché riportarli alla luce e poi renderli di nuovo vivi nel linguaggio corrente, ci piace più osservare queste parole esotiche imbrigliate nel passato, immobili in una teca dove non possono più parlare in modo autentico a nessuno. Spesso ce ne vergogniamo un po’, pensando che i nostri antenati devono essere stati proprio dei tipi bizzarri per parlare in quel modo, e sorridiamo straniti quando qualcuno le pronuncia ancora. La consuetudine è più forte della consapevolezza di non parlare più quel Gallurese, ma piuttosto il risultato di una mescolanza con l’italiano.

Nella stesura della traduzione di questo racconto di Herman Melville ho voluto evitare il tipo di operazione che ho descritto poco fa, cioè quella che mi ricorda un po’ il restauro d’antiquariato. La mia intenzione non è stata quella di fare una traduzione per ottenere un risultato più folcloristico che filologico. Ho cercato invece di modellare il testo a partire dalla lingua viva, quella che usiamo tutti i giorni, eliminando però quello che nel Gallurese corrente viene spesso sostituito con l’italiano per pigrizia, o per quella sorta di pudore verso un lessico visto ormai come difficile o superato.

Il testo si allontana inoltre dal Gallurese più “ufficiale”, rispecchiando piuttosto la parlata tipica del Gallurese trinitaiese-aggese, immediatamente riconoscibile da chi abbia dimestichezza con la lingua. Questo è dovuto, oltre che all’assenza di una vera e propria ortografia riconosciuta[1], al forte desiderio di far parlare il racconto in nuova lingua autentica, così da renderla il meno possibile distante dalla realtà a cui fa riferimento, e il più possibile fedele ai molteplici livelli di contenuto che una scrittura complessa come quella di Herman Melville esprime dietro ogni virgola.

Puoi leggere la mia traduzione di Lu ‘Indiolu di Parafulmini a questo indirizzo: http://www.lerotte.net/index.php?id_article=233

Consigli di lettura

Cossu, G., Fresi, F., a cura di (1988) I poeti popolari di Gallura, Cagliari, Edizioni Della Torre.
Steiner, G. (2004) Dopo babele, Milano, Garzanti.
Wagner, M. L. (2001) La lingua sarda, Nuoro, Ilisso.

Print Friendly, PDF & Email
  1. [1]

    Giulio Cossu e Franco Fresi non sarebbero d’accordo: nel volume I poeti popolari di Gallura presentano le poesie di cinque rimatori galluresi dell’ottocento “con la grafia unificata proposta alcuni anni fa da Giulio Cossu, […] ora largamente accettata da chi scrive in gallurese” (p. 10). Tuttavia nella pratica le regole stabilite per quei testi vengono spesso infrante in modo arbitrario, e non si può dire che ci sia una coscienza diffusa su quale sia la forma corretta da utilizzare per alcuni suoni; di questo parlerò in seguito.