Appunti sul «senso comune» / 1

Questa lunga riflessione prende spunto da uno dei tanti discorsi tra amici che mi è capitato di fare negli ultimi tempi. Quando si parla di politica, è diffusa l’opinione secondo cui ci sono alcuni temi che la classe politica non si decide ad affrontare, ma per i quali il buon senso suggerirebbe una soluzione ovvia e banale. È sempre più forte, per l’opinione comune, la percezione del politico che si avvita inutilmente in discussioni distanti dalle esigenze reali della popolazione; le soluzioni sembrano a portata di mano, auto-evidenti al punto da superare le «sterili separazioni ideologiche»: destra e sinistra non c’entrano niente, si tratta di scelte dettate dal «buon senso».

La convinzione che le ideologie siano ormai superate, e che esistano delle scelte oggettivamente giuste e condivisibili da tutti, come stazioni sui binari del senso comune, è uno degli stadi più degenerati del disinteresse collettivo nei confronti della politica vera e propria. La politica del «senso comune» è il rovescio della medaglia del tecnicismo: in preda al panico per l’aumento incontrollato dello spread, nel novembre del 2011 ci è stato fatto accettare il morbido passaggio dal fallimentare governo Berlusconi a quello guidato da Monti, che prometteva di fare ciò che era «oggettivamente necessario» per tirare fuori l’Italia dal pericolo di morte. Con la stessa logica ci ritroviamo con un governo di larghe intese che si definisce «di scopo» e «post-ideologico», vale a dire: superficialmente apolitico, ma in realtà sfacciatamente ideologizzato (come è evidente dalle scelte compiute in questi ultimi giorni). Il ruolo della stampa nel promuovere questa opinione è determinante, ed è importante non mostrare mai segni di cedimento:

In realtà non esistono governi propriamente tecnici o scelte tecniche: le scelte importanti sono sempre politiche, e dovrebbe essere chiaro che innanzitutto sono scelte. Non esiste un’unica soluzione ad un problema. Non esiste problema che non venga affrontato da (e che non mostri i segni di) una precisa posizione ideologica. Ciò significa che una scelta politica è tanto più potenzialmente pericolosa quanto più è celata dietro un velo di falsa imparzialità. L’importante è esserne comunque consapevoli, avere lo spirito critico necessario per strappare la maschera a quanto di «obiettivo» si spaccia per ogni dove, ed essere capaci di dosare la reazione di conseguenza. Il «buon senso» è solo un mostro molle e camaleontico che ognuno vede di un colore diverso.

La determinazione del «senso comune», dunque, avviene mediante un processo lento e del tutto intenzionale, condotto dalla classe egemone col solito scopo di affermare il proprio dominio. Viviamo in una lunga fase (iniziata grossomodo negli anni 80) in cui gli equilibri, anche in campo culturale, si sono progressivamente spostati a destra, e assistiamo al consolidamento di un “gramscismo rivisto” e massicciamente applicato [1], di cui il «senso comune» è il riflesso popolare. Una delle tecniche di “distrazione” predilette di questa “cultura” consiste nel dirottamento della comprensione degli eventi verso un’ostilità rivolta a falsi nemici. Il «senso comune» propone dunque una visione del mondo dai confini indefiniti, estremamente malleabile, nella quale è possibile includere virtualmente qualunque posizione.

1. In tempo di crisi niente è permesso

Il «senso comune» non è affatto un’entità determinata e immutabile. Gramsci ne analizzò le caratteristiche durante gli anni in carcere:

La «Frusta letteraria» fu una forma intermedia: bibliografia universale, critica del contenuto, con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista) […] Questi tipo generale appartiene alla sfera del «buon senso» o «senso comune»: cerca di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, correggendo, svecchiando, introducendo nuovi «luoghi comuni». Se sono ben scritte, con «verve», con un certo distacco, ma tuttavia con interesse per l’opinione media, esse possono avere grande diffusione ed esercitare una funzione importantissima. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica, né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, insomma, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: devono porsi nel campo stesso del «senso comune» distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non il disprezzo o la superiorità altezzosa.

[…] Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. [2]

E ancora:

Nel linguaggio comune «teorico» è adoperato in senso deteriore, come «dottrinario» e meglio ancora come «astrattista». Ha avuto la stessa sorte del termine «idealista» che dal significato tecnico filosofico ha preso a significare «vagheggiatore di nebulosità» ecc. Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta si una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il «senso comune» è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere. Il «buon senso» ha reagito, il «senso comune» ha imbalsamato la reazione e ne ha fatto un canone «teorico», «dottrinario», «idealistico». [3]

Rileggere oggi questo passaggio, in cui Gramsci parla di «nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume», non può non far riflettere sulla penetrazione capillare del miraggio neoliberista negli strati più bassi dell’inconscio collettivo. Un paio di estati fa, mentre eravamo seduti a tavola per una cena in famiglia, io e mia zia abbiamo discusso animatamente dopo che lei mi ha rimproverato (in quel momento io rappresentavo una generazione) perché i giovani d’oggi non accettano di fare lavori umili, e se ci sono così tanti laureati e laureate che non trovano lavoro è perché non si vogliono sporcare a fare le badanti (o a sputare sangue nei call center, o lavori analoghi). In questo discorso i luoghi comuni (1) dell’avversione per lo straniero che viene in Italia a rubare il lavoro altrui (le badanti sono tutte troie dell’est, come è noto), (2) dei ragazzi schizzinosi che non accettano di sporcarsi le mani (neanche l’ex-ministra Fornero ha saputo resistere alla tentazione di dire la sua, qualche mese fa), (3) la logica della disperazione prodotta dalla crisi economica che impone il sacrificio delle proprie aspirazioni e del percorso scelto, se all’improvviso capita il miracolo di trovare un posto qualunque, oltre ad un generale disprezzo di fondo verso il lavoro intellettuale e al deprimente rifiuto del sapere umanistico, si coagulano in una espressione del «senso comune» molto diffusa, quella secondo cui il diritto al lavoro perde la sua valenza di «diritto» e diventa un’opportunità del tipo «prendere o lasciare», cosicché i «diritti» veri e propri sono un lusso che non ci possiamo più permettere: le conseguenze di questo ribasso costante sono visibili ovunque, e comprendono condizioni lavorative sempre più degradanti, aumento della soglia di tolleranza nei confronti di compensi sempre più bassi e contratti sempre più evanescenti, perdita generalizzata dei diritti conquistati faticosamente con lotte storiche. Il tutto in nome dell’urgenza, della necessità di sacrifici sempre maggiori.

Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un’intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine. [4]

Sarà una conseguenza sfortunata della crisi? Un effetto collaterale del neoliberismo che ha plasmato gli ultimi decenni? Mah. David Harvey sostiene che questo non era l’effetto, ma proprio l’obiettivo:

[…] c’è un aspetto costante in questa complessa storia di neoliberalizzazione irregolare, ed è la tendenza universale ad aumentare la disuguaglianza sociale e ad esporre gli elementi meno fortunati, in qualsiasi società – in Indonesia come in Messico o in Gran Bretagna – ai venti gelidi dell’austerità e a un’emarginazione crescente. Se a una tendenza del genere si è in qualche caso posto rimedio grazie a politiche sociali, all’altra estremità dello spettro sociale gli effetti sono stati davvero spettacolari. Le incredibili concentrazioni di ricchezza e di potere che esistono adesso ai livelli più alti del capitalismo non si vedevano dagli anni venti. Il flusso dei tributi verso i maggiori centri finanziari del mondo è stato stupefacente. Quello che però è ancora più, stupefacente è l’abitudine a trattare tutto questo come un semplice – e magari in qualche caso deprecabile – effetto collaterale della neoliberalizzazione. La sola idea che questo aspetto possa invece costituire proprio l’elemento sostanziale a cui puntava la neoliberalizzazione fin dall’inizio – la sola idea che esista questa possibilità – appare inaccettabile. La teoria neoliberista ha dato prova di molto talento presentandosi con una maschera di benevolenza, con parole altisonanti come libertà, indipendenza, scelte e diritti, nascondendo le amare realtà della restaurazione del puro e semplice potere di classe, a livello locale oltre che transnazionale, ma in particolare nei principali centri finanziari del capitalismo globale. [5]

La nostra è quella «fase irrigidita» in cui non mettiamo neppure più in discussione, se non in alcuni contesti minoritari (nel nostro paese, e soltanto per il momento, si spera), questo dogma terribile[6], ma lo accettiamo indifesi come se fosse inevitabile (secondo la logica del There INAlternative, TINA), l’espiazione «obiettiva» di qualche peccato originale, al quale porre rimedio ogni mattina cercando di non far incazzare i mercati.

La teoria neoliberista sostiene, molto opportunamente, che la disoccupazione è sempre volontaria. La forza lavoro avrebbe un «prezzo minimo» al di sotto del quale preferisce non lavorare, e la disoccupazione nasce quando il prezzo minimo del lavoro è troppo alto. [7]

L’importante, ancora una volta, è esserne consapevoli e tenerlo bene a mente quando arriverà il momento giusto: quello in cui bisognerà per forza scegliere una parte e l’ideologia travolgerà con forza anche chi ha creduto di esserne dispensato. Il momento potrebbe non essere molto lontano: forse a breve ci si renderà conto più dolorosamente di quanto si sia appeso troppo presto al chiodo l’antifascismo in nome di una politica «post-ideologica», come fa presagire il recente rapporto della JP Morgan, in cui la società finanziaria statunitense suggerisce le riforme «necessarie» per scivolare fuori dalla crisi della zona Euro.

(continua…)

  1. [1]Massimiliano Panarari, Contrordine compagni: l’egemonia culturale adesso sta a destra, La Stampa, 26 giugno 2013, pp. 30-31
  2. [2]Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi, 2007; vol. I, pp. 75-76 – grassetto mio.
  3. [3]Q, vol. II, pp. 958-959 – grassetto mio.
  4. [4]Guido Viale, Ristrutturare il debito, Il Manifesto, 25 giugno 2013.
  5. [5]David Harvey, Breve Storia del Neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007; pp. 137-8.
  6. [6]Panarari ne dà un’ottima sintesi nell’articolo su La Stampa: “[gli] element fondamentali [del neoliberismo] sono stati l’automatismo del mercato, il ritorno al privato, il rifiuto dell’intervento pubblico in economia (a parte il salvataggio delle banche), il progressivo smantellamento del welfare, la flessibilità/precarietà delle attività lavorative, il passaggio da una cittadinanza dei diritti e dei doveri a una dei desideri e dei consumi”.
  7. [7]Ivi, p. 67.

The Euro area adjustment: l’antifascismo è roba vecchia

The political systems in the periphery were established in the aftermath of dictatorship, and were defined by that experience. Constitutions tend to show a strong socialist influence, reflecting the political strength that left wing parties gained after the defeat of fascism. Political systems around the periphery typically display several of the following features: weak executives; weak central states relative to regions; constitutional protection of labor rights; consensus building systems which foster political clientalism; and the right to protest if unwelcome changes are made to the political status quo. The shortcomings of this political legacy have been revealed by the crisis. Countries around the periphery have only been partially successful in producing fiscal and economic reform agendas, with governments constrained by constitutions (Portugal), powerful regions (Spain), and the rise of populist parties (Italy and Greece).
There is a growing recognition of the extent of this problem, both in the core and in the periphery. Change is beginning to take place. Spain took steps to address some of the contradictions of the post-Franco settlement with last year’s legislation enabling closer fiscal oversight of the regions. But, outside Spain little has happened thus far. The key test in the coming year will be in Italy, where the new government clearly has an opportunity to engage in meaningful political reform. But, in terms of the idea of a journey, the process of political reform has barely begun.

Il testo è tratto da un documento rilasciato a fine maggio dalla società finanziaria JP Morgan, e segnalato dal sito WallStreetItalia.it e da Il Fatto Quotidiano.
→ Scarica il pdf: JPM-the-euro-area-adjustment–about-halfway-there

Ecco una breve traduzione dell’estratto. A ciascuno le proprie considerazioni.

I sistemi politici delle periferie vennero fondati immediatamente dopo le dittature, e furono plasmati  da quelle esperienze. Le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, e riflettono la forza politica che i partiti di sinistra conquistarono in seguito alla sconfitta del fascismo. I sistemi politici nei dintorni delle periferie mostrano tipicamente alcune delle seguenti caratteristiche: esecutivo debole; stato centrale debole rispetto alle regioni; protezione costituzionale dei diritti del lavoro; sistemi di costruzione del consenso che favoriscono politiche clientelari; diritto di protesta se lo status quo politico compie delle modifiche sgradite. Le manchevolezze di questo retaggio politico sono state mostrate dalla crisi. I paesi nei dintorni della periferia hanno avuto un successo solo parziale nel produrre agende di riforma economica e fiscale, con governi frenati dalla costituzione (Portogallo), da regioni molto potenti (Spagna) e dal sorgere di partiti populisti (Italia e Grecia).
Il riconoscimento dell’entità di questo problema è in crescita, sia al centro che in periferia. Il cambiamento sta iniziando ad avvenire. La Spagna ha fatto dei passi avanti, affrontando alcune delle contraddizioni delle risoluzioni post-Franco con la legislazione dello scorso anno, che permette controlli fiscali più puntuali sulle regioni. A parte la Spagna, però, finora è accaduto ben poco. Il test cruciale per l’anno seguente sarà l’Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente un’opportunità di operare riforme politiche sensate. Tuttavia, in termini di un’idea di percorso, il processo delle riforme politiche è a malapena cominciato.

I suoni di Gaza City

I bombardamenti sono iniziati nella giornata di al-Hijriyah (il primo giorno del calendario islamico); io ero libero dal lavoro per via delle feste nazionali collegate, e mi stavo preparando ad un lungo fine settimana di quattro giorni. Da allora ho trascorso quei quattro giorni rinchiuso a casa mia, a Remal, Gaza, un quartiere benestante di Gaza City. Sono fortunato a non vivere nelle aree di confine, o nei campi densamente popolati e affiliati ad Hamas. Ciò non significa affatto che io mi senta al sicuro.

Dal momento in cui sono cominciati i bombardamenti  ho maledetto il centro commerciale costruito di recente che svetta al di là di casa nostra. Non solo ha violato tutte le deboli leggi urbanistiche di Gaza, ma il proprietario era noto per essere un simpatizzante di Hamas: ogni giorno ho temuto che potesse essere uno dei bersagli dei bombardamenti di Israele. La lista degli obiettivi di Israele sarà ispezionata e discussa all’indomani di questa operazione; al momento pare che si tratti di un miscuglio di siti per il lancio di razzi, di militanti pre-identificati, di depositi di armi, e poi ci sono gli obiettivi “simbolici”, ognuno dei quali implica un diverso calcolo strategico per Israele; ma dal nostro punto di vista, la presa di mira simbolica di edifici governativi è sconcertante tanto quanto la decisione di rispondere a razzi fatti in casa con bombe sganciate dagli F-16. E ognuna di queste mette a rischio vittime civili, quel “danno collaterale” che esce con molta facilità da troppe lingue.

Nelle prime ore del mattino di domenica, Jawazat, un grande complesso di edifici di polizia distante solo pochi minuti dalla mia abitazione, e vicino alla mia pizzeria preferita, è stato distrutto. Ha fatto seguito una tregua ingannevole, che ha generato ore di silenzio e attesa durante le quali non abbiamo osato avventurarci fuori. Mi sono seduto a casa con la mia famiglia, facendo congetture sull’ipotesi di un accordo di cessate il fuoco: le nostre paure e speranze sono venute fuori quando abbiamo iniziato a pensare che i nostri leaders avrebbero potuto essere prossimi ad un accordo per mettere fine a questo orrore. Poi, in un attimo, quattro esplosioni da far fermare il cuore, una dopo l’altra, hanno scosso la nostra casa che un tempo era intoccabile. Mentre le esplosioni assordanti si placavano ho cercato di recuperare un po’ contegno; cerchi di essere stoico, quando i bambini incrociano il tuo sguardo. Però in quel momento mi sono reso conto che sono io il bambino; sono io quello che è un dilettante della guerra. I miei fratellastri, che hanno sette e dodici anni, sono dei veterani nella sopravvivenza durante le guerre, dato che nel 2008 sono sopravvissuti all’Operazione Piombo Fuso, al bombardamento e all’invasione di Israele, mentre io ero assente e al sicuro a Londra. Sabato scorso eravamo solo al terzo giorno dell’Operazione Pilastro di Difesa; i miei fratellini avevano già sperimentato tutto questo per ventotto giorni, trentuno se si considera anche questa operazione.

Il giorno successivo ho raccontato della distruzione del Jawazat ad un amico stretto che vive a pochi isolati da me. È un giovane gazawi, con l’intelligenza di un ragazzo di strada, esperto riguardo alle dinamiche della comunità. Abbiamo cominciato a discutere della nostra vicinanza a probabili bersagli: lui ha detto che stava semplicemente aspettando che attaccassero la stazione di polizia di Abbas (un obiettivo simbolico, colpito anche durante l’Operazione Piombo Fuso), un edificio che sta nell’isolato di fronte a quello dove lui vive con la sua famiglia. Verso le 2 del mattino seguente, la stazione di polizia è stata distrutta. L’esplosione è stata così dura che ha dilaniato una porta molto pesante a casa nostra, mandato in frantumi diverse finestre, e gettato nel panico la nostra famiglia. Ho cercato subito di allontanare i bambini dalle finestre, e sono corso a chiamare il mio vicino. Ha risposto e in meno di cinque secondi si è lasciato sfuggire che nonostante lui e la sua famiglia, grazie al cielo, non erano feriti, tutto il resto a casa loro era distrutto, e il loro edificio era seriamente danneggiato.

A casa nostra siamo diventati degli esperti in materia militare, specializzandi nel suono delle armi israeliane e palestinesi. Riusciamo a distinguere con facilità il suono degli Apache, i missili degli F-16, i droni, e i razzi Fajr usati da Hamas. Quando le navi israeliane bombardano la costa, si sente un tonfo caratteristico e ripetitivo, segnato dal ritardo di un secondo fra il lancio e l’impatto. Gli F-16 scendono in picchiata come se stessero lacerando il cielo, agganciano il bersaglio e distruggono interi isolati con una precisione devastante. I droni: a Gaza vengono chiamati zananas, alludendo al ronzio di un’ape. Sono creature inarrestabili, irritanti. Non sempre sono un presagio di distruzione; piuttosto, rimangono onnipresenti, controllano come fanno le guardie carcerarie. I razzi Fajr sono assolutamente terrificanti perché hanno il suono di razzi che arrivano in picchiata. Si sentono di rado a Gaza City, perciò li confondiamo spesso con degli F-16 che volano basso. Tutto ciò crea un paesaggio sonoro terrificante, e di notte ci stendiamo sui letti sperando che le bombe non cadano sulle nostre case, che il vetro non vada in pezzi sopra il letto dei nostri figli. A volte ci spostiamo di stanza in stanza nel tentativo di sentire un senso di sicurezza. La realtà è che non c’è scampo, né in casa né dai confini di Gaza.

È la mia prima harb (guerra), e ha smosso dentro di me dei sentimenti che ho tentato di sopprimere a lungo. Non ho mai voluto guardare ad Israele come ad una forza del male. Mi sono detto che questo tipo di pensiero, questo genere di emozioni, non sarebbero stati d’aiuto, non sarebbero stati costruttivi, che non sarebbero stati “da me”. Ho voluto lavorare con gli israeliani; per riconciliare, suppongo. Dopo quattro anni di vita a Gaza, per me questa è diventata una posizione insostenibile. Avrei avuto meno problemi con gli sforzi di Israele per proteggere i suoi centri abitati, anche attraverso attacchi mirati verso coloro che considera i suoi nemici, se avesse anche lavorato in modo convincente per la pace, verso il riconoscimento dell’umanità di quelli che soffrono per le conseguenze del suo assedio continuo. Per quanto ne so, Hamas sta ponendo come condizione per un cessate il fuoco la promessa che il blocco di Gaza verrà rimosso. Perché questa dovrebbe essere considerata una richiesta irragionevole? Se Israele potesse agevolare l’esportazione di beni da Gaza, costruire una fabbrica, o aiutare concretamente con la consegna puntuale dei materiali per la ricostruzione, gli effetti di trasformazione sull’economia e la vita sociale di Gaza non sarebbero da sottovalutare. La riduzione del tasso di disoccupazione, che ora è al 30 per cento, l’inversione della traiettoria devastante che l’ONU prevede per Gaza, è ciò che Israele – con l’appoggio dell’ONU, degli USA, dell’Unione Europea e di Tony Blair – potrebbe realizzare, e realizzare subito. Invece quello a cui ho assistito è un tentativo sistematico da parte del governo israeliano di privare i palestinesi a Gaza delle libertà essenziali e di far sì che non possano condurre una vita dignitosa; forse l’odio che si agita fra i palestinesi, allora, non è una conseguenza fortuita. Tutto questo è stato fatto nel nome dell’autodifesa, eppure niente di tutto ciò ha reso Israele chiaramente più sicura (nonostante i pugni sbattuti sul petto quando si parla dell’efficiacia dell’Iron Dome); la porta rimane aperta, dunque, alla necessità di operazioni come Pilastro di Difesa.

Soltanto la settimana scorsa scrivevo le parole “sii prudente” ad alcuni amici a New York. Mi ha scaldato il cuore vedere la mia bacheca di Facebook accendersi di messaggi di supporto e solidarietà per i newyorchesi angosciati; è stato un momento che ha forato la superficialità e l’auto-promozione che normalmente associo a questo mezzo di comunicazione. Quando sono iniziati i bombardamenti su Gaza ho iniziato a ricevere dei messaggi che mi dicevano di “essere prudente”. Le parole “sii prudente” indirizzate a dei palestinesi assumono un significato diverso; richiedono ai mittenti di prendere una posizione che potrebbe costare degli amici nelle loro cerchie. (In questo caso stare zitti potrebbe essere la meno costosa delle posizioni, e forse anche la meno equivoca.) Ad ogni modo, da allora anche questo supporto verbale è venuto meno. Il risultato è un silenzio assordante da parte di amici che, a quanto pare, si sentono incapaci di inviare messaggi di supporto.

Nell’assenza di una pressione reale dal presidente Obama e dai leaders degli altri stati occidentali per tenere a freno Israele, diventa ancora più importante che la maggioranza silenziosa parli apertamente. È il motivo per cui credo che dobbiamo lavoraro più duro per far capire a chi è ancora incerto chi è l’oppresso, e chi è l’oppressore. A volte rimaniamo intrappolati nei nostri social networks, dando per scontato che un articolo condiviso fra noi abbia la stessa presa altrove. La verità è che la maggioranza non sa, e in fin dei conti non gli importa niente. Molti fra loro si chiedono ancora se supportare la Palestina non equivalga ad appoggiare il terrorismo. Spero che in futuro fra i miei amici occidentali ce ne siano di più a sentirsi sicuri del fatto che confortarmi con le parole “sii prudente” non è così controverso come potrebbero pensare, e che significa di più questo, ora, per i palestinesi di Gaza, di qualunque altra cosa possano dire i loro leaders.

Wasseem El Sarraj

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Wasseem El Sarraj è un ricercatore, scrittore e attivista palestinese nato nel Regno Unito. Vive a Gaza, e lavora presso Tida Gaza, un centro di ricerca e tutela legale con base nella striscia. Questo articolo è apparso il 19 novembre, due giorni prima dell’accordo di cessate il fuoco, sulla rivista statunitense The New Yorker.