Letture / giugno 2011

Un classico riscoperto.

Vita di Antonio Gramsci non lo troverete certo in libreria nello scaffale delle novità: la prima edizione (Laterza) risale al 1966. Nel frattempo gli studi su Gramsci sono andati avanti, sono state pubblicate nuove edizioni critiche dei suoi Quaderni ed è stata pubblicata molta della sua corrispondenza in varie raccolte. Sulla sua figura è stato scritto di tutto: negli ultimi anni, poi, è rientrato di prepotenza nel linguaggio della politica e nello scenario mediatico, e le sue parole vengono ora utilizzate, spesso indiscriminatamente, da più parti e in molteplici occasioni – talvolta senza contesto, e piegate al fine di avallare la tesi di turno. Proprio per questo (ri)leggere oggi questo libro è estremamente salutare, perché aiuta a ricomporre questa centrifuga di pensieri entro i limiti di quella che fu la straordinaria coerenza e integrità del pensatore sardo. Fiori non perde mai di vista i punti fermi del suo pensiero: rifiuto del settarismo, scarsa disponibilità a “carcerarsi dentro formule magiche immutabili in qualsiasi momento storico”, importanza della filologia e rigore metodologico. È singolare che molti fra i suoi scritti vengano utilizzati oggi, invece, proprio come delle pillole cristallizzate, dei passepartout applicabili a qualsiasi momento storico, citazioni autorevoli ma impiegate in modo a-critico e che proprio per questo infrangono uno dei principi elementari del suo pensiero.[1]

Il grande merito della prosa di Fiori è quello di saper fornire in modo agile un quadro dettagliato e ben strutturato di questo incontenibile universo del sapere e del contesto storico di riferimento, anche quando si tratta di dover ricomporre momenti in cui l’attività politica di Gramsci si era fatta densissima, e gli avvenimenti precipitavano senza controllo. Fiori conserva in ogni pagina quell’incedere travolgente caratteristico della sua scrittura (leggete il suo magnifico romanzo Sonetàula) e articola il resoconto di una vita tanto gravosa con grande leggerezza, riuscendo del tutto nell’intento di dare “di Gramsci un ritratto a figura intera, con i tuffi del sangue e della carne”. Un libro che si chiude con una lacrima.

(Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, 2003, Nuoro, Ilisso.)

 

Un libro per l’indipendenza.

I quattro mori sono sempre stati, a memoria d’uomo, il simbolo riconoscibile della comunità sarda; una bandiera sventolata in migliaia di occasioni diverse, dai concerti del primo maggio a Roma fino alle recenti rivolte del movimento dei pastori, passando per l’etichetta della birra Ichnusa. Emblema della fierezza nazionale, veicolo per la rivendicazione di un’appartenenza specifica. Risalire il fiume dell’orgoglio col quale questo simbolo viene spesso ostentato, però, rivela ad uno studio attento alcune sorprese straordinarie, e richiede lo sforzo di accantonare ogni preconcetto prima di proseguire per la via che porta, attraverso una narrazione ricchissima di fonti, alla scoperta dei molteplici e contraddittori significati della bandiera sarda.

I quattro mori fanno la loro prima apparizione nel 1281, impressi su un sigillo del re Pietro III di Aragona il Grande, ma dovrà passare ancora molto tempo prima che la bandiera diventi il simbolo dell’isola e dei suoi abitanti nell’immaginario collettivo. In mezzo c’è Mariano IV, divenuto giudice di Arborea nel 1347, e la storia sommersa di come unì il popolo sardo sotto una sola bandiera, quella dell’albero deradicato verde in campo bianco, lottando contro i catalano-aragonesi e confinandoli nelle roccaforti di Cagliari e Alghero. L’albero, che inizialmente simboleggiava il giudicato insieme ai pali catalani, si fece largo rapidamente fino ad eliminare del tutto l’elemento iberico, e diventò così il primo vessillo di origine autoctona con cui i sardi arrivarono ad un soffio dall’indipendenza. Ma la sconfitta dei sardi giudicali e la vittoria dei catalano-aragonesi del 1409, nella piana di Sanluri, seppellì gli avvenimenti sotto un cumulo di macerie, depositate con cura anche dalla classe intellettuale sarda che nei secoli a venire lavorerà soprattutto per compiacere la classe dominante di turno, condannando così la storia nazionale a cadere nell’oblio, in cambio di precari riconoscimenti e di un’integrazione sospirata a lungo, e mai ottenuta completamente. Lo stesso triste destino toccherà all’altra rivoluzione mancata, quella anti-piemontese guidata da Giovanni Maria Angioy verso la fine del ‘700, prontamente rimossa dalla memoria collettiva e rispolverata solo quando gli animi si erano raffreddati abbastanza da poterla ammirare comodamente in un museo.

La bandiera dei quattro mori porta dunque con sé una carica simbolica zeppa di contraddizioni: da simbolo del popolo invasore, passerà a rappresentare l’orgoglio e il militarismo dei sardi, un impulso che dal XVI secolo si trascinerà fino all’età moderna per dare vita a quel sardismo che prende le mosse dal sentimento di fierezza e abnegazione dei reduci della Brigata Sassari. Fierezza per le proprie origini sarde e ardore patriottico italiano, ovvero orgoglio e integrazione. Una confusione semantica che porta oggi la regione Sardegna ad aver adottato i quattro mori come proprio simbolo ufficiale, dichiarando per iscritto che la loro origine resta ancora avvolta nell’incertezza, ma che il simbolo, certamente, da molti secoli identifica la Sardegna e il suo popolo nella sua unità e nella sua volontà di essere libero.

(Franciscu Sedda, La vera storia della bandiera dei sardi, 2007, Cagliari, Condaghes.)

  1. [1]Vedi anche Antonio Pigliaru, L’eredità di Gramsci e la cultura sarda, 2008, Nuoro, Il Maestrale.

L’Uomo di Porlock

Almada Negreiros, Ritratto di Fernando Pessoa (particolare), 1954

La storia marginale della letteratura registra come curiosità il modo in cui fu composto e scritto il Kubla Khan di Coleridge.

Questo quasi-poema è uno dei più straordinari della letteratura inglese – la più grande, a parte la greca, di tutte le letterature. E la straordinarietà dell’intreccio coesiste e si fonde con la straordinarietà della sua origine.

E’ stato composto, racconta Coleridge, in sogno. Egli soggiornava di tanto in tanto in una tenuta solitaria, fra il villaggio di Porlock e quello di Linton. Un giorno, per effetto di un sedativo che aveva preso, si addormentò; dormì tre ore, durante le quali, dice, compose l’opera, poiché le immagini e le espressioni verbali che corrispondevano loro si originavano nella sua mente parallelamente e senza sforzo.

Una volta sveglio, pensò di scrivere quello che aveva composto; aveva già scritto una trentina di versi, quando gli venne annunciata la visita di un “uomo di Porlock”. Coleridge si sentì obbligato a riceverlo. Passò con lui quasi un’ora. Ma al momento di rimettersi a trascrivere quello che aveva composto in sogno, si accorse di essersi dimenticato il  resto; si ricordava solo il finale del testo – altri ventiquattro versi.

E’ così che ci è giunto il Kubla Khan come frammento o frammenti, il principio e la fine di qualcosa di pauroso, di un altro mondo, raffigurato in termini di mistero che l’immaginazione umana non può concepire, e di cui ignoriamo, con un brivido, quale sarebbe potuta essere la trama. Edgar Poe (discepolo, che lo sapesse o meno, di Coleridge) non ha mai raggiunto, in versi o in prosa, l’Altro Mondo in modo così spontaneo o con la stessa sinistra pienezza. In Poe, pur con tutta la sua freddezza, rimane qualcosa di nostro, sebbene in forma negativa; nel Kubla Khan tutto è altro, tutto è Aldilà; e ciò che non si riesce a decifrare accade in un Oriente impossibile, ma che il poeta ha visto davvero.

Non si sa – Coleridge non ce lo ha detto – chi fosse quell’Uomo di Porlock che tanti, come me, avranno maledetto. Sarà stato per una coincidenza fortuita che è spuntato questo seccatore sconosciuto a disturbare una comunicazione fra l’abisso e la vita? Sarà sorta, tale apparente coincidenza, da qualche occulta presenza reale, di quelle che sembrano impedire di proposito la rivelazione dei Misteri, anche se intuitiva e lecita, o la trascrizione dei sogni, se in essi sia latente qualche forma di questa rivelazione?

Comunque sia, credo che il caso di Coleridge rappresenti – in forma esasperata, destinata a dar vita a una allegoria vissuta – ciò che capita a tutti noi quando in questo mondo tentiamo, con la sensibilità per cui si fa arte, di comunicare, falsi pontefici, con l’Altro Mondo di noi stessi.

Il fatto è che tutti noi quando componiamo, anche se siamo svegli, è come se lo facessimo in sogno. E a tutti noi, anche se nessuno viene a trovarci, si presenta dal nostro intimo “l’Uomo di Porlock”, il seccatore inatteso. Tutto quanto veramente pensiamo o sentiamo, tutto quanto veramente siamo subisce (quando lo esprimiamo anche solo a noi stessi) l’interruzione fatale di quel visitatore che siamo noi, di quella personalità estranea che ciascuno di noi ha in sé, più reale, nella vita, di noi stessi: la somma vivente di ciò che impariamo, di ciò che pensiamo di essere e di ciò che desideriamo essere.

Questo visitatore – perennemente sconosciuto perché, pur essendo noi, “non è nessuno” -, questo seccatore – perennemente anonimo perché, pur essendo vivo, è “impersonale” – tutti noi lo dobbiamo ricevere, per debolezza nostra, fra l’inizio e la fine di una poesia concepita per intero, che non permettiamo a noi stessi di vedere scritta. E quello che di tutti noi, artisti grandi o piccoli, sopravvive realmente, sono frammenti di ciò che non sappiamo cosa sia, ma che sarebbe, se ci fosse stato, l’espressione stessa della nostra anima.

Fossimo capaci di essere fanciulli, per non avere visite, né visitatori che ci sentiamo obbligati a ricevere! Ma non vogliamo far aspettare chi non esiste, non vogliamo offendere l'”estraneo” che è noi. E così, di quello che sarebbe potuto essere, resta solo ciò che è; della poesia, o delle opera omnia, solo il principio e la fine di qualcosa andato perduto – disiecta membra che, come disse Carlyle, sono ciò che resta di ogni poeta, o di ogni uomo.

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[Fernando Pessoa, Obras em Prosa, cura, introduzione e note di Cleonice Berardinelli, Nova Aguilar, Rio de Janeiro, 1974, III, 398-400. Traduzione in Pagine Esoteriche, a cura di Silvano Peloso, Adelphi, Milano, 1997.]