Appunti sul «senso comune» / 1

Questa lunga riflessione prende spunto da uno dei tanti discorsi tra amici che mi è capitato di fare negli ultimi tempi. Quando si parla di politica, è diffusa l’opinione secondo cui ci sono alcuni temi che la classe politica non si decide ad affrontare, ma per i quali il buon senso suggerirebbe una soluzione ovvia e banale. È sempre più forte, per l’opinione comune, la percezione del politico che si avvita inutilmente in discussioni distanti dalle esigenze reali della popolazione; le soluzioni sembrano a portata di mano, auto-evidenti al punto da superare le «sterili separazioni ideologiche»: destra e sinistra non c’entrano niente, si tratta di scelte dettate dal «buon senso».

La convinzione che le ideologie siano ormai superate, e che esistano delle scelte oggettivamente giuste e condivisibili da tutti, come stazioni sui binari del senso comune, è uno degli stadi più degenerati del disinteresse collettivo nei confronti della politica vera e propria. La politica del «senso comune» è il rovescio della medaglia del tecnicismo: in preda al panico per l’aumento incontrollato dello spread, nel novembre del 2011 ci è stato fatto accettare il morbido passaggio dal fallimentare governo Berlusconi a quello guidato da Monti, che prometteva di fare ciò che era «oggettivamente necessario» per tirare fuori l’Italia dal pericolo di morte. Con la stessa logica ci ritroviamo con un governo di larghe intese che si definisce «di scopo» e «post-ideologico», vale a dire: superficialmente apolitico, ma in realtà sfacciatamente ideologizzato (come è evidente dalle scelte compiute in questi ultimi giorni). Il ruolo della stampa nel promuovere questa opinione è determinante, ed è importante non mostrare mai segni di cedimento:

In realtà non esistono governi propriamente tecnici o scelte tecniche: le scelte importanti sono sempre politiche, e dovrebbe essere chiaro che innanzitutto sono scelte. Non esiste un’unica soluzione ad un problema. Non esiste problema che non venga affrontato da (e che non mostri i segni di) una precisa posizione ideologica. Ciò significa che una scelta politica è tanto più potenzialmente pericolosa quanto più è celata dietro un velo di falsa imparzialità. L’importante è esserne comunque consapevoli, avere lo spirito critico necessario per strappare la maschera a quanto di «obiettivo» si spaccia per ogni dove, ed essere capaci di dosare la reazione di conseguenza. Il «buon senso» è solo un mostro molle e camaleontico che ognuno vede di un colore diverso.

La determinazione del «senso comune», dunque, avviene mediante un processo lento e del tutto intenzionale, condotto dalla classe egemone col solito scopo di affermare il proprio dominio. Viviamo in una lunga fase (iniziata grossomodo negli anni 80) in cui gli equilibri, anche in campo culturale, si sono progressivamente spostati a destra, e assistiamo al consolidamento di un “gramscismo rivisto” e massicciamente applicato [1], di cui il «senso comune» è il riflesso popolare. Una delle tecniche di “distrazione” predilette di questa “cultura” consiste nel dirottamento della comprensione degli eventi verso un’ostilità rivolta a falsi nemici. Il «senso comune» propone dunque una visione del mondo dai confini indefiniti, estremamente malleabile, nella quale è possibile includere virtualmente qualunque posizione.

1. In tempo di crisi niente è permesso

Il «senso comune» non è affatto un’entità determinata e immutabile. Gramsci ne analizzò le caratteristiche durante gli anni in carcere:

La «Frusta letteraria» fu una forma intermedia: bibliografia universale, critica del contenuto, con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista) […] Questi tipo generale appartiene alla sfera del «buon senso» o «senso comune»: cerca di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, correggendo, svecchiando, introducendo nuovi «luoghi comuni». Se sono ben scritte, con «verve», con un certo distacco, ma tuttavia con interesse per l’opinione media, esse possono avere grande diffusione ed esercitare una funzione importantissima. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica, né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, insomma, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: devono porsi nel campo stesso del «senso comune» distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non il disprezzo o la superiorità altezzosa.

[…] Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. [2]

E ancora:

Nel linguaggio comune «teorico» è adoperato in senso deteriore, come «dottrinario» e meglio ancora come «astrattista». Ha avuto la stessa sorte del termine «idealista» che dal significato tecnico filosofico ha preso a significare «vagheggiatore di nebulosità» ecc. Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta si una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il «senso comune» è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere. Il «buon senso» ha reagito, il «senso comune» ha imbalsamato la reazione e ne ha fatto un canone «teorico», «dottrinario», «idealistico». [3]

Rileggere oggi questo passaggio, in cui Gramsci parla di «nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume», non può non far riflettere sulla penetrazione capillare del miraggio neoliberista negli strati più bassi dell’inconscio collettivo. Un paio di estati fa, mentre eravamo seduti a tavola per una cena in famiglia, io e mia zia abbiamo discusso animatamente dopo che lei mi ha rimproverato (in quel momento io rappresentavo una generazione) perché i giovani d’oggi non accettano di fare lavori umili, e se ci sono così tanti laureati e laureate che non trovano lavoro è perché non si vogliono sporcare a fare le badanti (o a sputare sangue nei call center, o lavori analoghi). In questo discorso i luoghi comuni (1) dell’avversione per lo straniero che viene in Italia a rubare il lavoro altrui (le badanti sono tutte troie dell’est, come è noto), (2) dei ragazzi schizzinosi che non accettano di sporcarsi le mani (neanche l’ex-ministra Fornero ha saputo resistere alla tentazione di dire la sua, qualche mese fa), (3) la logica della disperazione prodotta dalla crisi economica che impone il sacrificio delle proprie aspirazioni e del percorso scelto, se all’improvviso capita il miracolo di trovare un posto qualunque, oltre ad un generale disprezzo di fondo verso il lavoro intellettuale e al deprimente rifiuto del sapere umanistico, si coagulano in una espressione del «senso comune» molto diffusa, quella secondo cui il diritto al lavoro perde la sua valenza di «diritto» e diventa un’opportunità del tipo «prendere o lasciare», cosicché i «diritti» veri e propri sono un lusso che non ci possiamo più permettere: le conseguenze di questo ribasso costante sono visibili ovunque, e comprendono condizioni lavorative sempre più degradanti, aumento della soglia di tolleranza nei confronti di compensi sempre più bassi e contratti sempre più evanescenti, perdita generalizzata dei diritti conquistati faticosamente con lotte storiche. Il tutto in nome dell’urgenza, della necessità di sacrifici sempre maggiori.

Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un’intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine. [4]

Sarà una conseguenza sfortunata della crisi? Un effetto collaterale del neoliberismo che ha plasmato gli ultimi decenni? Mah. David Harvey sostiene che questo non era l’effetto, ma proprio l’obiettivo:

[…] c’è un aspetto costante in questa complessa storia di neoliberalizzazione irregolare, ed è la tendenza universale ad aumentare la disuguaglianza sociale e ad esporre gli elementi meno fortunati, in qualsiasi società – in Indonesia come in Messico o in Gran Bretagna – ai venti gelidi dell’austerità e a un’emarginazione crescente. Se a una tendenza del genere si è in qualche caso posto rimedio grazie a politiche sociali, all’altra estremità dello spettro sociale gli effetti sono stati davvero spettacolari. Le incredibili concentrazioni di ricchezza e di potere che esistono adesso ai livelli più alti del capitalismo non si vedevano dagli anni venti. Il flusso dei tributi verso i maggiori centri finanziari del mondo è stato stupefacente. Quello che però è ancora più, stupefacente è l’abitudine a trattare tutto questo come un semplice – e magari in qualche caso deprecabile – effetto collaterale della neoliberalizzazione. La sola idea che questo aspetto possa invece costituire proprio l’elemento sostanziale a cui puntava la neoliberalizzazione fin dall’inizio – la sola idea che esista questa possibilità – appare inaccettabile. La teoria neoliberista ha dato prova di molto talento presentandosi con una maschera di benevolenza, con parole altisonanti come libertà, indipendenza, scelte e diritti, nascondendo le amare realtà della restaurazione del puro e semplice potere di classe, a livello locale oltre che transnazionale, ma in particolare nei principali centri finanziari del capitalismo globale. [5]

La nostra è quella «fase irrigidita» in cui non mettiamo neppure più in discussione, se non in alcuni contesti minoritari (nel nostro paese, e soltanto per il momento, si spera), questo dogma terribile[6], ma lo accettiamo indifesi come se fosse inevitabile (secondo la logica del There INAlternative, TINA), l’espiazione «obiettiva» di qualche peccato originale, al quale porre rimedio ogni mattina cercando di non far incazzare i mercati.

La teoria neoliberista sostiene, molto opportunamente, che la disoccupazione è sempre volontaria. La forza lavoro avrebbe un «prezzo minimo» al di sotto del quale preferisce non lavorare, e la disoccupazione nasce quando il prezzo minimo del lavoro è troppo alto. [7]

L’importante, ancora una volta, è esserne consapevoli e tenerlo bene a mente quando arriverà il momento giusto: quello in cui bisognerà per forza scegliere una parte e l’ideologia travolgerà con forza anche chi ha creduto di esserne dispensato. Il momento potrebbe non essere molto lontano: forse a breve ci si renderà conto più dolorosamente di quanto si sia appeso troppo presto al chiodo l’antifascismo in nome di una politica «post-ideologica», come fa presagire il recente rapporto della JP Morgan, in cui la società finanziaria statunitense suggerisce le riforme «necessarie» per scivolare fuori dalla crisi della zona Euro.

(continua…)

  1. [1]Massimiliano Panarari, Contrordine compagni: l’egemonia culturale adesso sta a destra, La Stampa, 26 giugno 2013, pp. 30-31
  2. [2]Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi, 2007; vol. I, pp. 75-76 – grassetto mio.
  3. [3]Q, vol. II, pp. 958-959 – grassetto mio.
  4. [4]Guido Viale, Ristrutturare il debito, Il Manifesto, 25 giugno 2013.
  5. [5]David Harvey, Breve Storia del Neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007; pp. 137-8.
  6. [6]Panarari ne dà un’ottima sintesi nell’articolo su La Stampa: “[gli] element fondamentali [del neoliberismo] sono stati l’automatismo del mercato, il ritorno al privato, il rifiuto dell’intervento pubblico in economia (a parte il salvataggio delle banche), il progressivo smantellamento del welfare, la flessibilità/precarietà delle attività lavorative, il passaggio da una cittadinanza dei diritti e dei doveri a una dei desideri e dei consumi”.
  7. [7]Ivi, p. 67.

Letture / giugno 2011

Un classico riscoperto.

Vita di Antonio Gramsci non lo troverete certo in libreria nello scaffale delle novità: la prima edizione (Laterza) risale al 1966. Nel frattempo gli studi su Gramsci sono andati avanti, sono state pubblicate nuove edizioni critiche dei suoi Quaderni ed è stata pubblicata molta della sua corrispondenza in varie raccolte. Sulla sua figura è stato scritto di tutto: negli ultimi anni, poi, è rientrato di prepotenza nel linguaggio della politica e nello scenario mediatico, e le sue parole vengono ora utilizzate, spesso indiscriminatamente, da più parti e in molteplici occasioni – talvolta senza contesto, e piegate al fine di avallare la tesi di turno. Proprio per questo (ri)leggere oggi questo libro è estremamente salutare, perché aiuta a ricomporre questa centrifuga di pensieri entro i limiti di quella che fu la straordinaria coerenza e integrità del pensatore sardo. Fiori non perde mai di vista i punti fermi del suo pensiero: rifiuto del settarismo, scarsa disponibilità a “carcerarsi dentro formule magiche immutabili in qualsiasi momento storico”, importanza della filologia e rigore metodologico. È singolare che molti fra i suoi scritti vengano utilizzati oggi, invece, proprio come delle pillole cristallizzate, dei passepartout applicabili a qualsiasi momento storico, citazioni autorevoli ma impiegate in modo a-critico e che proprio per questo infrangono uno dei principi elementari del suo pensiero.[1]

Il grande merito della prosa di Fiori è quello di saper fornire in modo agile un quadro dettagliato e ben strutturato di questo incontenibile universo del sapere e del contesto storico di riferimento, anche quando si tratta di dover ricomporre momenti in cui l’attività politica di Gramsci si era fatta densissima, e gli avvenimenti precipitavano senza controllo. Fiori conserva in ogni pagina quell’incedere travolgente caratteristico della sua scrittura (leggete il suo magnifico romanzo Sonetàula) e articola il resoconto di una vita tanto gravosa con grande leggerezza, riuscendo del tutto nell’intento di dare “di Gramsci un ritratto a figura intera, con i tuffi del sangue e della carne”. Un libro che si chiude con una lacrima.

(Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, 2003, Nuoro, Ilisso.)

 

Un libro per l’indipendenza.

I quattro mori sono sempre stati, a memoria d’uomo, il simbolo riconoscibile della comunità sarda; una bandiera sventolata in migliaia di occasioni diverse, dai concerti del primo maggio a Roma fino alle recenti rivolte del movimento dei pastori, passando per l’etichetta della birra Ichnusa. Emblema della fierezza nazionale, veicolo per la rivendicazione di un’appartenenza specifica. Risalire il fiume dell’orgoglio col quale questo simbolo viene spesso ostentato, però, rivela ad uno studio attento alcune sorprese straordinarie, e richiede lo sforzo di accantonare ogni preconcetto prima di proseguire per la via che porta, attraverso una narrazione ricchissima di fonti, alla scoperta dei molteplici e contraddittori significati della bandiera sarda.

I quattro mori fanno la loro prima apparizione nel 1281, impressi su un sigillo del re Pietro III di Aragona il Grande, ma dovrà passare ancora molto tempo prima che la bandiera diventi il simbolo dell’isola e dei suoi abitanti nell’immaginario collettivo. In mezzo c’è Mariano IV, divenuto giudice di Arborea nel 1347, e la storia sommersa di come unì il popolo sardo sotto una sola bandiera, quella dell’albero deradicato verde in campo bianco, lottando contro i catalano-aragonesi e confinandoli nelle roccaforti di Cagliari e Alghero. L’albero, che inizialmente simboleggiava il giudicato insieme ai pali catalani, si fece largo rapidamente fino ad eliminare del tutto l’elemento iberico, e diventò così il primo vessillo di origine autoctona con cui i sardi arrivarono ad un soffio dall’indipendenza. Ma la sconfitta dei sardi giudicali e la vittoria dei catalano-aragonesi del 1409, nella piana di Sanluri, seppellì gli avvenimenti sotto un cumulo di macerie, depositate con cura anche dalla classe intellettuale sarda che nei secoli a venire lavorerà soprattutto per compiacere la classe dominante di turno, condannando così la storia nazionale a cadere nell’oblio, in cambio di precari riconoscimenti e di un’integrazione sospirata a lungo, e mai ottenuta completamente. Lo stesso triste destino toccherà all’altra rivoluzione mancata, quella anti-piemontese guidata da Giovanni Maria Angioy verso la fine del ‘700, prontamente rimossa dalla memoria collettiva e rispolverata solo quando gli animi si erano raffreddati abbastanza da poterla ammirare comodamente in un museo.

La bandiera dei quattro mori porta dunque con sé una carica simbolica zeppa di contraddizioni: da simbolo del popolo invasore, passerà a rappresentare l’orgoglio e il militarismo dei sardi, un impulso che dal XVI secolo si trascinerà fino all’età moderna per dare vita a quel sardismo che prende le mosse dal sentimento di fierezza e abnegazione dei reduci della Brigata Sassari. Fierezza per le proprie origini sarde e ardore patriottico italiano, ovvero orgoglio e integrazione. Una confusione semantica che porta oggi la regione Sardegna ad aver adottato i quattro mori come proprio simbolo ufficiale, dichiarando per iscritto che la loro origine resta ancora avvolta nell’incertezza, ma che il simbolo, certamente, da molti secoli identifica la Sardegna e il suo popolo nella sua unità e nella sua volontà di essere libero.

(Franciscu Sedda, La vera storia della bandiera dei sardi, 2007, Cagliari, Condaghes.)

  1. [1]Vedi anche Antonio Pigliaru, L’eredità di Gramsci e la cultura sarda, 2008, Nuoro, Il Maestrale.

La Brigata "Sassari"

Ieri mattina le autorità militari passarono in rivista la Brigata “Sassari” in piazza Vittorio Emanuele I. Erano presenti naturalmente autorità di ogni genere. Applausi, fiori e discorsi.
Gli azionisti delle Ferrovie sarde, che speculano sulla indennità che lo Stato concede loro per ogni chilometro di ferrovia; che speculano sulla bonomia del contadino e del pastore sardo e fanno viaggiare i sardi in vetture da bestiame; che per risparmiare carbon fossile, riscaldano le locomotive col legno e ogni anno provocano centinaia di migliaia di lire di danni ai contadini e ai pastori sardi; gli azionisti delle miniere sarde che speculano sulla crisi permanente di lavoro esistente in Sardegna, e retribuiscono i minatori e i braccianti sardi con pochi soldi al giorno, obbligando chi lavora 12, 14, 16 ore quotidiane a nutrirsi di pane d’orzo e cipolle, di fichi d’India e di radici; gli azionisti delle Società industriali siderurgiche e meccaniche, che fanno pagare un occhio della testa, ai contadini, ai pastori, agli artigiani della Sardegna, le zappe, gli aratri, i ferri per i cavalli ed i buoi;
gli industriali del cuoio, che strozzano i contadini, i pastori e gli artigiani si Sardegna coi prezzi enormi cui fanno salire le scarpe; gli industriali del cuoio che obbligano un terzo dei contadini sardi ad andare scalzi tra le spine e i sassi taglienti, che obbligano le madri, le figlie, le mogli dei contadini dei pastori sardi ad andare sempre scalze, d’inverno e d’estate;
i signori torinesi, la classe borghese di Torino che nel 1898 ha seminato di lutti e rovine l’isola di Sardegna facendo perseguitare, dai carabinieri e dai soldati, come cinghiali, per monti e per valli, i contadini e i pastori sardi affamati (1);
i signori torinesi, la classe borghese di Torino, che ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia (2) , che ha rovinato i porti di Oristano e di Bosa, che ha costretto più di centomila sardi a lasciare la famiglia, i figli, la moglie per emigrare per trovar lavoro nell’Argentina e nel Brasile;
i signori torinesi, la classe borghese di Torino, che ha sempre considerato la Sardegna come una colonia di sfruttamento, che ha rubato in Sardegna, nell’ultimo cinquantennio, più di 500 milioni di imposte, denaro sudato dai contadini e dai pastori rimanendo sotto la sferza del sole per 16 ore quotidiane; i signori torinesi, la classe borghese di Torino, che si è arricchita distruggendo le foreste sarde, che ha riempito i suoi portafogli col sangue, la fame, la miseria del popolo di Sardegna;
tutta questa caterva di parassiti, di vampiri del generoso sangue di Sardegna, insieme ai discendenti di quei baroni piemontesi, contro le angherie e la ferocia dei quali ancor oggi i pastori e i contadini cantano le canzoni rivoluzionarie di Giomaria Angioy, tutta questa ciurmaglia elegante e ben pasciuta oggi festeggia i contadini, i pastori e gli artigiani della Brigata “Sassari”. Regalano “fiori” a questi uomini che hanno il corpo ancora segnato dal feroce lavoro cui li ha costretti da bambini il loro turpe e spietato sfruttamento; regalano “sigari” a questi uomini, le cui madri, le cui sorelle, le cui figlie si esauriscono in un lavoro da schiavi; regalano coccarde e sorrisi a questi uomini, ai quali hanno tolto tutto, ai quali l’esattore mette all’asta il campicello e la casuccia per tre soldi di imposta non pagata, ai quali non hanno mai dato scuole, né acquedotti, né porti, né giustizia, ai quali hanno sempre domandato sacrifizi, fino al massimo sacrifizio della vita.
Oggi li festeggiano, li carezzano, li avvolgono di occhiate tenere, pare ne palpino i muscoli e i nervi. Eccoli i castigamatti! Ecco i servi fedeli! Eccoli i cosacchi da scagliare contro gli operai comunisti.

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