Appunti sul «senso comune» / 1

Questa lunga riflessione prende spunto da uno dei tanti discorsi tra amici che mi è capitato di fare negli ultimi tempi. Quando si parla di politica, è diffusa l’opinione secondo cui ci sono alcuni temi che la classe politica non si decide ad affrontare, ma per i quali il buon senso suggerirebbe una soluzione ovvia e banale. È sempre più forte, per l’opinione comune, la percezione del politico che si avvita inutilmente in discussioni distanti dalle esigenze reali della popolazione; le soluzioni sembrano a portata di mano, auto-evidenti al punto da superare le «sterili separazioni ideologiche»: destra e sinistra non c’entrano niente, si tratta di scelte dettate dal «buon senso».

La convinzione che le ideologie siano ormai superate, e che esistano delle scelte oggettivamente giuste e condivisibili da tutti, come stazioni sui binari del senso comune, è uno degli stadi più degenerati del disinteresse collettivo nei confronti della politica vera e propria. La politica del «senso comune» è il rovescio della medaglia del tecnicismo: in preda al panico per l’aumento incontrollato dello spread, nel novembre del 2011 ci è stato fatto accettare il morbido passaggio dal fallimentare governo Berlusconi a quello guidato da Monti, che prometteva di fare ciò che era «oggettivamente necessario» per tirare fuori l’Italia dal pericolo di morte. Con la stessa logica ci ritroviamo con un governo di larghe intese che si definisce «di scopo» e «post-ideologico», vale a dire: superficialmente apolitico, ma in realtà sfacciatamente ideologizzato (come è evidente dalle scelte compiute in questi ultimi giorni). Il ruolo della stampa nel promuovere questa opinione è determinante, ed è importante non mostrare mai segni di cedimento:

In realtà non esistono governi propriamente tecnici o scelte tecniche: le scelte importanti sono sempre politiche, e dovrebbe essere chiaro che innanzitutto sono scelte. Non esiste un’unica soluzione ad un problema. Non esiste problema che non venga affrontato da (e che non mostri i segni di) una precisa posizione ideologica. Ciò significa che una scelta politica è tanto più potenzialmente pericolosa quanto più è celata dietro un velo di falsa imparzialità. L’importante è esserne comunque consapevoli, avere lo spirito critico necessario per strappare la maschera a quanto di «obiettivo» si spaccia per ogni dove, ed essere capaci di dosare la reazione di conseguenza. Il «buon senso» è solo un mostro molle e camaleontico che ognuno vede di un colore diverso.

La determinazione del «senso comune», dunque, avviene mediante un processo lento e del tutto intenzionale, condotto dalla classe egemone col solito scopo di affermare il proprio dominio. Viviamo in una lunga fase (iniziata grossomodo negli anni 80) in cui gli equilibri, anche in campo culturale, si sono progressivamente spostati a destra, e assistiamo al consolidamento di un “gramscismo rivisto” e massicciamente applicato [1], di cui il «senso comune» è il riflesso popolare. Una delle tecniche di “distrazione” predilette di questa “cultura” consiste nel dirottamento della comprensione degli eventi verso un’ostilità rivolta a falsi nemici. Il «senso comune» propone dunque una visione del mondo dai confini indefiniti, estremamente malleabile, nella quale è possibile includere virtualmente qualunque posizione.

1. In tempo di crisi niente è permesso

Il «senso comune» non è affatto un’entità determinata e immutabile. Gramsci ne analizzò le caratteristiche durante gli anni in carcere:

La «Frusta letteraria» fu una forma intermedia: bibliografia universale, critica del contenuto, con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista) […] Questi tipo generale appartiene alla sfera del «buon senso» o «senso comune»: cerca di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, correggendo, svecchiando, introducendo nuovi «luoghi comuni». Se sono ben scritte, con «verve», con un certo distacco, ma tuttavia con interesse per l’opinione media, esse possono avere grande diffusione ed esercitare una funzione importantissima. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica, né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, insomma, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: devono porsi nel campo stesso del «senso comune» distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non il disprezzo o la superiorità altezzosa.

[…] Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezione della vita e la morale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. [2]

E ancora:

Nel linguaggio comune «teorico» è adoperato in senso deteriore, come «dottrinario» e meglio ancora come «astrattista». Ha avuto la stessa sorte del termine «idealista» che dal significato tecnico filosofico ha preso a significare «vagheggiatore di nebulosità» ecc. Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta si una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il «senso comune» è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere. Il «buon senso» ha reagito, il «senso comune» ha imbalsamato la reazione e ne ha fatto un canone «teorico», «dottrinario», «idealistico». [3]

Rileggere oggi questo passaggio, in cui Gramsci parla di «nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume», non può non far riflettere sulla penetrazione capillare del miraggio neoliberista negli strati più bassi dell’inconscio collettivo. Un paio di estati fa, mentre eravamo seduti a tavola per una cena in famiglia, io e mia zia abbiamo discusso animatamente dopo che lei mi ha rimproverato (in quel momento io rappresentavo una generazione) perché i giovani d’oggi non accettano di fare lavori umili, e se ci sono così tanti laureati e laureate che non trovano lavoro è perché non si vogliono sporcare a fare le badanti (o a sputare sangue nei call center, o lavori analoghi). In questo discorso i luoghi comuni (1) dell’avversione per lo straniero che viene in Italia a rubare il lavoro altrui (le badanti sono tutte troie dell’est, come è noto), (2) dei ragazzi schizzinosi che non accettano di sporcarsi le mani (neanche l’ex-ministra Fornero ha saputo resistere alla tentazione di dire la sua, qualche mese fa), (3) la logica della disperazione prodotta dalla crisi economica che impone il sacrificio delle proprie aspirazioni e del percorso scelto, se all’improvviso capita il miracolo di trovare un posto qualunque, oltre ad un generale disprezzo di fondo verso il lavoro intellettuale e al deprimente rifiuto del sapere umanistico, si coagulano in una espressione del «senso comune» molto diffusa, quella secondo cui il diritto al lavoro perde la sua valenza di «diritto» e diventa un’opportunità del tipo «prendere o lasciare», cosicché i «diritti» veri e propri sono un lusso che non ci possiamo più permettere: le conseguenze di questo ribasso costante sono visibili ovunque, e comprendono condizioni lavorative sempre più degradanti, aumento della soglia di tolleranza nei confronti di compensi sempre più bassi e contratti sempre più evanescenti, perdita generalizzata dei diritti conquistati faticosamente con lotte storiche. Il tutto in nome dell’urgenza, della necessità di sacrifici sempre maggiori.

Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un’intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine. [4]

Sarà una conseguenza sfortunata della crisi? Un effetto collaterale del neoliberismo che ha plasmato gli ultimi decenni? Mah. David Harvey sostiene che questo non era l’effetto, ma proprio l’obiettivo:

[…] c’è un aspetto costante in questa complessa storia di neoliberalizzazione irregolare, ed è la tendenza universale ad aumentare la disuguaglianza sociale e ad esporre gli elementi meno fortunati, in qualsiasi società – in Indonesia come in Messico o in Gran Bretagna – ai venti gelidi dell’austerità e a un’emarginazione crescente. Se a una tendenza del genere si è in qualche caso posto rimedio grazie a politiche sociali, all’altra estremità dello spettro sociale gli effetti sono stati davvero spettacolari. Le incredibili concentrazioni di ricchezza e di potere che esistono adesso ai livelli più alti del capitalismo non si vedevano dagli anni venti. Il flusso dei tributi verso i maggiori centri finanziari del mondo è stato stupefacente. Quello che però è ancora più, stupefacente è l’abitudine a trattare tutto questo come un semplice – e magari in qualche caso deprecabile – effetto collaterale della neoliberalizzazione. La sola idea che questo aspetto possa invece costituire proprio l’elemento sostanziale a cui puntava la neoliberalizzazione fin dall’inizio – la sola idea che esista questa possibilità – appare inaccettabile. La teoria neoliberista ha dato prova di molto talento presentandosi con una maschera di benevolenza, con parole altisonanti come libertà, indipendenza, scelte e diritti, nascondendo le amare realtà della restaurazione del puro e semplice potere di classe, a livello locale oltre che transnazionale, ma in particolare nei principali centri finanziari del capitalismo globale. [5]

La nostra è quella «fase irrigidita» in cui non mettiamo neppure più in discussione, se non in alcuni contesti minoritari (nel nostro paese, e soltanto per il momento, si spera), questo dogma terribile[6], ma lo accettiamo indifesi come se fosse inevitabile (secondo la logica del There INAlternative, TINA), l’espiazione «obiettiva» di qualche peccato originale, al quale porre rimedio ogni mattina cercando di non far incazzare i mercati.

La teoria neoliberista sostiene, molto opportunamente, che la disoccupazione è sempre volontaria. La forza lavoro avrebbe un «prezzo minimo» al di sotto del quale preferisce non lavorare, e la disoccupazione nasce quando il prezzo minimo del lavoro è troppo alto. [7]

L’importante, ancora una volta, è esserne consapevoli e tenerlo bene a mente quando arriverà il momento giusto: quello in cui bisognerà per forza scegliere una parte e l’ideologia travolgerà con forza anche chi ha creduto di esserne dispensato. Il momento potrebbe non essere molto lontano: forse a breve ci si renderà conto più dolorosamente di quanto si sia appeso troppo presto al chiodo l’antifascismo in nome di una politica «post-ideologica», come fa presagire il recente rapporto della JP Morgan, in cui la società finanziaria statunitense suggerisce le riforme «necessarie» per scivolare fuori dalla crisi della zona Euro.

(continua…)

  1. [1]Massimiliano Panarari, Contrordine compagni: l’egemonia culturale adesso sta a destra, La Stampa, 26 giugno 2013, pp. 30-31
  2. [2]Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere, Torino, Einaudi, 2007; vol. I, pp. 75-76 – grassetto mio.
  3. [3]Q, vol. II, pp. 958-959 – grassetto mio.
  4. [4]Guido Viale, Ristrutturare il debito, Il Manifesto, 25 giugno 2013.
  5. [5]David Harvey, Breve Storia del Neoliberismo, Milano, Il Saggiatore, 2007; pp. 137-8.
  6. [6]Panarari ne dà un’ottima sintesi nell’articolo su La Stampa: “[gli] element fondamentali [del neoliberismo] sono stati l’automatismo del mercato, il ritorno al privato, il rifiuto dell’intervento pubblico in economia (a parte il salvataggio delle banche), il progressivo smantellamento del welfare, la flessibilità/precarietà delle attività lavorative, il passaggio da una cittadinanza dei diritti e dei doveri a una dei desideri e dei consumi”.
  7. [7]Ivi, p. 67.

In Sardegna non ci torno più

Ieri mattina è venuto in ufficio un signore con baffi e capelli grigi a pagare la notte trascorsa in porto. Mentre sbrigava le pratiche abbiamo scambiato due parole a proposito del crollo degli arrivi di questa stagione. La cosa ha iniziato a prendere una piega un po’ diversa dalla solita chiacchierata quando ha affermato che secondo lui noi sardi ci staremmo suicidando a causa di tariffe alte, controlli eccessivi e divieti irragionevoli lungo la costa, che quest’anno hanno fatto scappare tutti gli yacht in Corsica e verso altri lidi più accomodanti. Il ragionamento andava più o meno così: “la costa smeralda è l’attrazione principale della Sardegna, di conseguenza se lì lavorano moltissimo voi qui lavorate molto; anche un negozio dove io vado a comprare due moschettoni lavora grazie al turismo, perciò le barche portano benessere quando arrivano, bisogna essere elastici e chiudere un occhio su tutti questi divieti altrimenti così la gente la fai scappare via. Che mi metti a fare un divieto di sosta, per tre mesi che dura la stagione? L’anno scorso hanno fatto un’area marina protetta là, ma che accidenti l’hanno fatta a fare? Non mi lasci fermare ed ancorare lì, ma io non lo so. Uno deve essere libero di venire e visitare e fermarsi dove vuole, poi non ci sono i servizi”, eccetera eccetera.

Ho pensato subito all’articolo di Gramellini su La Stampa di qualche giorno fa, che esprime in poche parole il sentimento di soddisfazione nel vedere che questo tipo di turismo si stia togliendo di mezzo per andare a cercare altrove paradisi da spremere (anche se nutro ragionevoli dubbi sul tipo di serietà a cui aspira questo paese):

Sloggiati a forza dalle calette proibite della Maddalena, i possidenti di megayacht reagiscono con accenti che mescolano lo stupore all’arroganza, minacciando di non tornare mai più in Sardegna. Sono oligarchi russi, principi tedeschi, evasori italiani. Vorrei li accompagnasse il mio personale augurio di buon viaggio. Vadano a inquinare le coste croate, francesi o lillipuziane: qui da qualche tempo si cerca di diventare un Paese povero ma serio. È il risvolto ironico di questa estate deprimente. Finché eravamo la patria dei finti divieti e degli scontrini fantasma, il mondo degli ultraricchi ci frequentava disprezzandoci. Adesso che cominciamo a pretendere il rispetto delle regole, i moralisti di ieri si indignano per l’inaudito capovolgimento del luogo comune che ci vuole accomodanti e servili. E usano l’unica arma a loro disposizione, i soldi. Così ogni slancio di pulizia viene sottoposto al ricatto economico, che purtroppo la crisi rende particolarmente efficace.

Una piscina sul mare negli hotel Delphina a Valle dell'Erica

Alla tesi diffusa secondo cui la competitività dell’offerta turistica debba necessariamente comportare la rinuncia alle regole e lo sfruttamento indiscriminato del territorio mi riesce sempre più difficile non rispondere con un affanculo. Va però riconosciuto che molte delle colpe per la diffusione di questa mentalità di consumo sregolato sono da attribuire a noi locali, prima ancora che a quella categoria di turisti che pagando pretendono. Col tempo si è assestato un equilibrio anomalo fra chi visita la nostra terra e chi offre ospitalità, impostato secondo il modello del villaggio turistico e ricalcato in centinaia di copie un po’ ovunque, nella periferia della sfavillante costa smeralda. Spesso ciò significa che i servizi sono di scarsa qualità mentre i costi si mantengono a livelli piuttosto alti; certamente, però, la conseguenza più grave di tutto ciò è la perdita dei tratti caratteristici della cultura e della personalità locale a favore di un’offerta standardizzata e tipica solo in una misura folkloristica e non autentica. Un posto vale l’altro nel mondo dei villaggi turistici e dei marina, ed è per questo che Corsica, Sardegna o Croazia non fa alcuna differenza. Eppure noi avremmo tutte le carte in regola per promuovere un tipo di turismo del tutto diverso, interessato alla cultura e alle tradizioni locali e stimolato dalle risorse del territorio che possiamo mettere a disposizione. Potremmo puntare, per esempio, ad avere un turista che sia un ospite anziché un cliente a cui spremere il portafogli, e a ridefinire quell’equilibrio che è completamente estraneo alla nostra cultura e alle nostre tradizioni.

Un turismo diverso è possibile

In un articolo di qualche anno fa, l’antropologo Bachisio Bandinu analizzava le possibilità di incontro fra l’ospitalità tradizionale e la cura dell’accoglienza turistica, evidenziando come uno dei tratti più caratteristici della proverbiale ospitalità sarda sia da ricercare nell’assonanza tra hostis e hospitis:

Dichiarata l’ospitalità, da parte di chi la dà e da parte di chi la riceve, si entra nello statuto di ospite che fa scattare la ritualità dell’accoglienza nella dimensione dell’offerta totale. L’ospite è affrancato da ogni incombenza, è garantito in tutte le sue necessità. Non deve pensare a nulla, gli viene dato tutto gratuitamente. Ospitalità nel mangiare, nel dormire, nella comunicazione, negli inviti al bar, ai pranzi. E’ un sentimento di grande umanità ma a ben vedere questo eccesso di attenzione non riesce a cancellare del tutto quell’antico fantasma di hostis, di estraneo, di possibile nemico. L’ospite non ha diritto di cittadinanza, non è uno della comunità, è “di fuori”. C’è dunque una valenza sottaciuta, appena sfiorata, di ostilità nell’ospitalità più dichiarata. E’ un uomo garantito: tutto gli è concesso ma nella disposizione attenta di non intralciare le regole della comunità, dell’essere come dire indifeso davanti all’ospitalità. Non ha auctoritas, non può dire: io voglio cambiare le regole. Si ha cura di lui purché si abbandoni alle usanze. […]

Ciò non significa affatto che un’offerta basata su un principio simile debba regalare tutto al visitatore, tenendolo allo stesso tempo a distanza di sicurezza, ma ci ricorda piuttosto che le nostre comunità sono capaci di un’ospitalità distinta e personalissima che è possibile trasportare nelle pratiche dell’accoglienza turistica, anche su scala più larga:

E’ possibile un passaggio dall’ospitalità antropologica tradizionale alla cortese cura dell’accoglienza turistica? Un traghettamento di un’antica ritualità verso il servizio nuovo di tipo turistico? Appartenendo a due universi è possibile il trasferimento di un’abitudine o di un sentimento da una cultura all’altra? […] Mi è capitato di osservare a Su Gologone di Oliena il linguaggio del corpo delle ragazze nell’approccio col cliente. Vestite in “blusa e funedda” senza adombramenti folkloristici, con una regalità di atteggiamento, si dimostravano attente e sollecite, ma senza invadenza, con naturalezza e riservatezza. Ti si avvicinano, sembrerebbe strano, tra atteggiamento di regine e di inservienti, senza dimensione di recita e senza manierismi professionali. Perché questo è il punto: nella cultura sarda la recita è considerata negativa. Cioè se tu sei troppo ossequioso, se tu esageri nella dimensione manieristica “ses maniatica”, sei presa da manìa. Rivolgersi continuamente al cliente [chiedendogli] se si trova a suo agio è una forma d’invadenza e di disturbo: è un tipo di gentilezza che non appartiene al linguaggio dei sardi. Questo linguaggio della massima sollecitudine e della vigile riservatezza sarebbe la forma più distintiva di un nuovo stile comunicativo.

(Almanacco Gallurese 2008-2009, Sassari, Giovanni Gelsomino Editore, pp. 41-43)

Al di là del singolo esempio riportato qui sopra, un’integrazione intelligente fra la forma tradizionale di ospitalità e un’offerta commerciale può e deve esistere, e potrebbe far nascere una forma inedita e raffinata di ospitalità, quella che si confà maggiormente ad un turismo di lusso, scrive Bandinu. Mi permetto di dissentire su un punto: una forma di ospitalità che si basa sui valori tradizionali e offre una partecipazione più autentica alla vita della comunità, anziché il soggiorno in ghetti turistici creati appositamente, dovrebbe essere l’offerta di base per qualunque fascia di turismo che intenda visitare la nostra terra. Non può esistere un turismo di lusso, trattato con riverenza, accanto a quello di massa sbattuto in mega-residence con appartamenti a tre piani costruiti come alveari e venduti per poche migliaia di euro. Non è più pensabile la distruzione delle coste per la realizzazione di villaggi dai nomi esotici e del tutto estranei al territorio circostante, così come non ci si dovrebbe più sforzare inutilmente di fare assomigliare a questi ultimi i paesini di pescatori già presenti da tempo sulla costa. Un esempio di questa tendenza è l’autorizzazione di nuove concessioni balneari private sul litorale del nostro comune, accompagnata dal disinteresse verso la creazione di servizi di indubbia utilità quali bagni pubblici e mezzi di trasporto locali (esiste anche un paesino davvero niente male a sei chilometri dal mare, e pochissimi parcheggi affollati di auto inutili).

Se il locale sa ospitare con dignità, anziché rinunciare al proprio spirito per far strada ad un’accoglienza superficiale riservata al “bestiame” turistico, il rispetto e l’amore per la terra da parte del turista arrivano da soli, come conseguenza del rispetto che egli ha per sé. L’approccio del turista verso la località che lo ospita esce così dalla logica dello sterile sfruttamento della zona e dei servizi che offre, e il rispetto delle regole non viene più visto come un disservizio non previsto nella tariffa di soggiorno. E’ auspicabile che in futuro una terra come questa sarà capace di fare un’auto-selezione, spedendo a ragione i turisti che non stanno alle regole del gioco verso altre destinazioni, con gli auguri nostri e di Gramellini.

La rivoluzione di Aristan, l’università felice

Logo dell'università di Aristan
Logo dell'università di Aristan

Ieri sera sono andato a Sassari per seguire la presentazione dell’università di Aristan, un progetto che ha fatto molto parlare di sé in questi ultimi mesi perché promette di ritagliarsi un posto di primo piano nell’ambiente culturale alternativo della Sardegna, potendo contare sulla partecipazione di docenti illustri che provengono da settori molto diversi fra loro, dal mondo dello spettacolo al più rigoroso ambiente accademico.

L’idea della facoltà di Scienze della Felicità, corso di laurea in Teoria e Tecniche di Salvezza dell’Umanità, è nata dalla mente di Filippo Martinez (che nell’università sarà titolare della cattedra di regalità), artista sardo e regista del programma tv Sgarbi quotidiani. Martinez parla con orgoglio di un corso destinato agli animi sensibili, finalizzato alla ricerca della felicità in senso lato, così come ad una formazione politica del laureando. Il problema, al giorno d’oggi, è che i ragazzi scelgono i corsi di laurea solo in base a quante opportunità di lavoro questi potranno garantire; mentre è chiaro che se una facoltà non offre alcun titolo riconosciuto ufficialmente, gli studenti non potranno che frequentarla per passione; caratteristica, quest’ultima, che i fondatori offrono a garanzia del livello di studenti, corsi e docenti.

Oltre a Martinez, ieri sera c’erano Michela Murgia, Manlio Brigaglia e Marco Schintu, per presentare i corsi della futura università – per il momento ancora un’utopia, che prenderà vita solo se si raggiunge la quota minima di 380 caparre versate entro natale. Prima ancora di entrare nel merito degli insegnamenti, si parla subito di denaro: €190 l’iscrizione (meglio se in contanti, sconsigliate le transazioni elettroniche), più i costi degli eventuali soggiorni presso la struttura che ospiterà i corsi (l’Horse Country di Arborea), con possibilità di pacchetti vitto & alloggio per il week-end.

Sia Martinez che Murgia intervengono più volte sottolineando il ruolo sovversivo della felicità – contrapposto, evidentemente, a quello più conservatore della seriosità. I docenti, personalità di spicco della cultura sarda e italiana (con qualche eccezione), showmen e filosofi, erano rappresentati da una delegazione che ha improvvisato a braccio le bozze dei programmi: Brigaglia si è gettato nel vortice di un ricordo d’infanzia per introdurre il suo corso (che tra l’altro non ha neppure il titolo scelto dal docente: infanziologia anzichè infantologia, come fa notare egli stesso a Martinez nel corso dela serata), ma quando il racconto è terminato si è capito subito che non c’era altro, se non la dichiarazione di voler utilizzare i ricordi d’infanzia in senso storiografico, sperando che tra gli studenti ci sia qualcuno di età abbastanza avanzata per poter narrare qualcosa di interessante. Schintu, invece, tenta di presentare il suo corso sulla paura, ed esordisce con “però vi parlerò di mio cognato”; poi apre un file powerpoint per aiutarsi, ma più che descrivere il programma elenca una serie di punti che verranno affrontati nelle lezioni, del tipo aspettando l’ambulanza, dando l’impressione di aver abbozzato il tutto non più di una mezz’ora prima.

Il clima è festoso e le risate non mancano; nell’ebbrezza dell’entusiasmo le parole scivolano con facilità, e i docenti chiariscono il motivo portante del progetto, ciò che spinge per far nascere la nuova università. Confesso che ho provato una rabbia feroce nel vedere persone per le quali nutro una grande stima mostrarsi con l’aria di essere state pescate a caso da una lista di nomi, e insistere nel definire politico e sovversivo un progetto che appare frammentario (ogni insegnante farà al massimo tre lezioni di 40 minuti ciascuna, quindi svolgerà piuttosto dei brevi seminari), disordinato (non c’è un filo conduttore che lega i vari insegnamenti, solo l’imperativo di insegnare qualcosa che abbia contribuito alla felicità dei docenti stessi, e in generale il perseguimento della felicità), sostanzialmente di intrattenimento (l’università gioca tutto sui nomi noti e sul loro seguito di discepoli, ma manca completamente un criterio di continuità: non si spiega altrimenti che cosa possa accomunare persone come Michela Murgia e Vittorio Sgarbi; considero questa la premessa più sbagliata dell’esperimento).

Il vero punto dolente della questione, però, è che l’idea viene presentata come sovversiva facendo leva sul discredito della cultura accademica tradizionale, snobbata con sarcasmo in quanto scelta troppo spesso per ragioni utilitaristiche da parte degli studenti, ma fallisce nell’offrire una proposta credibile; l’alternativa indicata è quella di corsi per cui se sono felici i professori saranno felici anche gli studenti, e si appoggia su luoghi comuni quali la distanza fra professori e allievi nelle università vere (che sarà abolita nei miracolosi corsi di Aristan), la natura necessariamente fuori dal comune di chi sceglie, con coraggio e spirito di intraprendenza, di puntare su un esperimento tanto rivoluzionario da non poter essere neppure spiegato come si deve; un clima che, a tratti, mi fa piombare indietro nel tempo a quella volta in cui assistetti sgomento ad un raduno del Rinnovamento dello Spirito Santo. Più laicamente, queste banalità danno un sapore reazionario all’esperimento stesso, almeno a giudicare dalle premesse. È irricevibile la proposta di un corso con confini tanto labili, che si pone lo scopo di sviluppare un discorso politico in tre lezioni a testa, e snobba sulla fiducia il resto della formazione ordinaria (che non potrà mai essere all’altezza di un percorso in cui ognuno dei quaranta tira dalla sua parte). È inaccettabile perché è sostenuta anche da chi impegna quotidianamente la propria credibilità per creare una coscienza politica, questa volta autentica, attraverso il metodico smantellamento di tecniche retoriche e demagogiche che ieri sera, purtroppo, sono state utilizzate in abbondanza; e da professori-istituzioni che sembrano aver trovato più lo svago del fine settimana che la volontà di costruire qualcosa di sensato.

Per finire, ricordo un articolo che lessi qualche anno fa, forse scritto da Gramellini sulla Stampa (ma non ne sono certo). Dietro il microfono dell’aula magna di un’università in cui era stato invitato per fare un intervento, Fabio Volo colpevolizzò con supponenza gli studenti che lo ascoltavano in silenzio, svelando loro che avevano scelto di fare l’università solo in vista di una futura occupazione, o per stare parcheggiati nel limbo a spese dei genitori, e non certo per passione o amore della cultura. Ricordo bene quelle righe: dicevano anche che nessuno degli studenti presenti si fosse alzato in piedi per replicare – signor Volo, io non ci sto: seguo i corsi di questa università e amo ciò che studio, non accetto che qualcuno possa interpretare in modo tanto superficiale i miei intenti e dire stronzate a proposito dei miei sacrifici, né tantomeno che possa parlare a nome mio. Credo che la felicità possa essere difficilmente insegnata o suggerita con qualunquismo come fa lei, ma si trovi nella ricerca del proprio percorso e nel perseguirlo con coerenza e passione, non facendo zapping fra un corso e l’altro, aggiungerei banalmente io.

Fonti:
http://www.aristan.org/
http://www.horsecountry.it/
http://www.ustation.it/articoli/1150-nasce-