In Sardegna non ci torno più

Ieri mattina è venuto in ufficio un signore con baffi e capelli grigi a pagare la notte trascorsa in porto. Mentre sbrigava le pratiche abbiamo scambiato due parole a proposito del crollo degli arrivi di questa stagione. La cosa ha iniziato a prendere una piega un po’ diversa dalla solita chiacchierata quando ha affermato che secondo lui noi sardi ci staremmo suicidando a causa di tariffe alte, controlli eccessivi e divieti irragionevoli lungo la costa, che quest’anno hanno fatto scappare tutti gli yacht in Corsica e verso altri lidi più accomodanti. Il ragionamento andava più o meno così: “la costa smeralda è l’attrazione principale della Sardegna, di conseguenza se lì lavorano moltissimo voi qui lavorate molto; anche un negozio dove io vado a comprare due moschettoni lavora grazie al turismo, perciò le barche portano benessere quando arrivano, bisogna essere elastici e chiudere un occhio su tutti questi divieti altrimenti così la gente la fai scappare via. Che mi metti a fare un divieto di sosta, per tre mesi che dura la stagione? L’anno scorso hanno fatto un’area marina protetta là, ma che accidenti l’hanno fatta a fare? Non mi lasci fermare ed ancorare lì, ma io non lo so. Uno deve essere libero di venire e visitare e fermarsi dove vuole, poi non ci sono i servizi”, eccetera eccetera.

Ho pensato subito all’articolo di Gramellini su La Stampa di qualche giorno fa, che esprime in poche parole il sentimento di soddisfazione nel vedere che questo tipo di turismo si stia togliendo di mezzo per andare a cercare altrove paradisi da spremere (anche se nutro ragionevoli dubbi sul tipo di serietà a cui aspira questo paese):

Sloggiati a forza dalle calette proibite della Maddalena, i possidenti di megayacht reagiscono con accenti che mescolano lo stupore all’arroganza, minacciando di non tornare mai più in Sardegna. Sono oligarchi russi, principi tedeschi, evasori italiani. Vorrei li accompagnasse il mio personale augurio di buon viaggio. Vadano a inquinare le coste croate, francesi o lillipuziane: qui da qualche tempo si cerca di diventare un Paese povero ma serio. È il risvolto ironico di questa estate deprimente. Finché eravamo la patria dei finti divieti e degli scontrini fantasma, il mondo degli ultraricchi ci frequentava disprezzandoci. Adesso che cominciamo a pretendere il rispetto delle regole, i moralisti di ieri si indignano per l’inaudito capovolgimento del luogo comune che ci vuole accomodanti e servili. E usano l’unica arma a loro disposizione, i soldi. Così ogni slancio di pulizia viene sottoposto al ricatto economico, che purtroppo la crisi rende particolarmente efficace.

Una piscina sul mare negli hotel Delphina a Valle dell'Erica

Alla tesi diffusa secondo cui la competitività dell’offerta turistica debba necessariamente comportare la rinuncia alle regole e lo sfruttamento indiscriminato del territorio mi riesce sempre più difficile non rispondere con un affanculo. Va però riconosciuto che molte delle colpe per la diffusione di questa mentalità di consumo sregolato sono da attribuire a noi locali, prima ancora che a quella categoria di turisti che pagando pretendono. Col tempo si è assestato un equilibrio anomalo fra chi visita la nostra terra e chi offre ospitalità, impostato secondo il modello del villaggio turistico e ricalcato in centinaia di copie un po’ ovunque, nella periferia della sfavillante costa smeralda. Spesso ciò significa che i servizi sono di scarsa qualità mentre i costi si mantengono a livelli piuttosto alti; certamente, però, la conseguenza più grave di tutto ciò è la perdita dei tratti caratteristici della cultura e della personalità locale a favore di un’offerta standardizzata e tipica solo in una misura folkloristica e non autentica. Un posto vale l’altro nel mondo dei villaggi turistici e dei marina, ed è per questo che Corsica, Sardegna o Croazia non fa alcuna differenza. Eppure noi avremmo tutte le carte in regola per promuovere un tipo di turismo del tutto diverso, interessato alla cultura e alle tradizioni locali e stimolato dalle risorse del territorio che possiamo mettere a disposizione. Potremmo puntare, per esempio, ad avere un turista che sia un ospite anziché un cliente a cui spremere il portafogli, e a ridefinire quell’equilibrio che è completamente estraneo alla nostra cultura e alle nostre tradizioni.

Un turismo diverso è possibile

In un articolo di qualche anno fa, l’antropologo Bachisio Bandinu analizzava le possibilità di incontro fra l’ospitalità tradizionale e la cura dell’accoglienza turistica, evidenziando come uno dei tratti più caratteristici della proverbiale ospitalità sarda sia da ricercare nell’assonanza tra hostis e hospitis:

Dichiarata l’ospitalità, da parte di chi la dà e da parte di chi la riceve, si entra nello statuto di ospite che fa scattare la ritualità dell’accoglienza nella dimensione dell’offerta totale. L’ospite è affrancato da ogni incombenza, è garantito in tutte le sue necessità. Non deve pensare a nulla, gli viene dato tutto gratuitamente. Ospitalità nel mangiare, nel dormire, nella comunicazione, negli inviti al bar, ai pranzi. E’ un sentimento di grande umanità ma a ben vedere questo eccesso di attenzione non riesce a cancellare del tutto quell’antico fantasma di hostis, di estraneo, di possibile nemico. L’ospite non ha diritto di cittadinanza, non è uno della comunità, è “di fuori”. C’è dunque una valenza sottaciuta, appena sfiorata, di ostilità nell’ospitalità più dichiarata. E’ un uomo garantito: tutto gli è concesso ma nella disposizione attenta di non intralciare le regole della comunità, dell’essere come dire indifeso davanti all’ospitalità. Non ha auctoritas, non può dire: io voglio cambiare le regole. Si ha cura di lui purché si abbandoni alle usanze. […]

Ciò non significa affatto che un’offerta basata su un principio simile debba regalare tutto al visitatore, tenendolo allo stesso tempo a distanza di sicurezza, ma ci ricorda piuttosto che le nostre comunità sono capaci di un’ospitalità distinta e personalissima che è possibile trasportare nelle pratiche dell’accoglienza turistica, anche su scala più larga:

E’ possibile un passaggio dall’ospitalità antropologica tradizionale alla cortese cura dell’accoglienza turistica? Un traghettamento di un’antica ritualità verso il servizio nuovo di tipo turistico? Appartenendo a due universi è possibile il trasferimento di un’abitudine o di un sentimento da una cultura all’altra? […] Mi è capitato di osservare a Su Gologone di Oliena il linguaggio del corpo delle ragazze nell’approccio col cliente. Vestite in “blusa e funedda” senza adombramenti folkloristici, con una regalità di atteggiamento, si dimostravano attente e sollecite, ma senza invadenza, con naturalezza e riservatezza. Ti si avvicinano, sembrerebbe strano, tra atteggiamento di regine e di inservienti, senza dimensione di recita e senza manierismi professionali. Perché questo è il punto: nella cultura sarda la recita è considerata negativa. Cioè se tu sei troppo ossequioso, se tu esageri nella dimensione manieristica “ses maniatica”, sei presa da manìa. Rivolgersi continuamente al cliente [chiedendogli] se si trova a suo agio è una forma d’invadenza e di disturbo: è un tipo di gentilezza che non appartiene al linguaggio dei sardi. Questo linguaggio della massima sollecitudine e della vigile riservatezza sarebbe la forma più distintiva di un nuovo stile comunicativo.

(Almanacco Gallurese 2008-2009, Sassari, Giovanni Gelsomino Editore, pp. 41-43)

Al di là del singolo esempio riportato qui sopra, un’integrazione intelligente fra la forma tradizionale di ospitalità e un’offerta commerciale può e deve esistere, e potrebbe far nascere una forma inedita e raffinata di ospitalità, quella che si confà maggiormente ad un turismo di lusso, scrive Bandinu. Mi permetto di dissentire su un punto: una forma di ospitalità che si basa sui valori tradizionali e offre una partecipazione più autentica alla vita della comunità, anziché il soggiorno in ghetti turistici creati appositamente, dovrebbe essere l’offerta di base per qualunque fascia di turismo che intenda visitare la nostra terra. Non può esistere un turismo di lusso, trattato con riverenza, accanto a quello di massa sbattuto in mega-residence con appartamenti a tre piani costruiti come alveari e venduti per poche migliaia di euro. Non è più pensabile la distruzione delle coste per la realizzazione di villaggi dai nomi esotici e del tutto estranei al territorio circostante, così come non ci si dovrebbe più sforzare inutilmente di fare assomigliare a questi ultimi i paesini di pescatori già presenti da tempo sulla costa. Un esempio di questa tendenza è l’autorizzazione di nuove concessioni balneari private sul litorale del nostro comune, accompagnata dal disinteresse verso la creazione di servizi di indubbia utilità quali bagni pubblici e mezzi di trasporto locali (esiste anche un paesino davvero niente male a sei chilometri dal mare, e pochissimi parcheggi affollati di auto inutili).

Se il locale sa ospitare con dignità, anziché rinunciare al proprio spirito per far strada ad un’accoglienza superficiale riservata al “bestiame” turistico, il rispetto e l’amore per la terra da parte del turista arrivano da soli, come conseguenza del rispetto che egli ha per sé. L’approccio del turista verso la località che lo ospita esce così dalla logica dello sterile sfruttamento della zona e dei servizi che offre, e il rispetto delle regole non viene più visto come un disservizio non previsto nella tariffa di soggiorno. E’ auspicabile che in futuro una terra come questa sarà capace di fare un’auto-selezione, spedendo a ragione i turisti che non stanno alle regole del gioco verso altre destinazioni, con gli auguri nostri e di Gramellini.

La verità su Quirra

È da molto tempo che non scrivo un articolo su questo blog, e oggi è sicuramente arrivato il momento di ricominciare: questa mattina ho letto un articolo che invitava ad ascoltare la deposizione del procuratore di Lanusei Domenico Fiordalisi sulle indagini effettuate a proposito del poligono interforze del Salto di Quirra. La registrazione è dell’8 maggio, giorno in cui Fiordalisi ha presentato l’esito delle ricerche davanti ai senatori della commissione parlamentare d’inchiesta istituita per studiare l’argomento. Ascoltare il contenuto di questa registrazione è agghiacciante, ed è qualcosa che tutti dovremmo fare per essere consapevoli della misura in cui lo stato italiano, i governi della regione e le aziende che effettuavano i test nel poligono abbiano distribuito la morte indisturbati per tutto questo tempo. È inspiegabile come la notizia di questa importante conferma non abbia provocato una tempesta, ma solo un articolo sulla Nuova Sardegna che è ormai passato nella colonna dell’oblio.

Ascoltate la registrazione: sentirete parlare del torio, di come questo elemento sia stato disperso nell’ambiente e della pericolosità estrema delle particelle alfa che vengono generate dai figli di questa sostanza. Fiordalisi spiega come il torio sia molto più dannoso dell’uranio impoverito, e che il territorio dove si trova il poligono ne è impregnato. Sentirete raccontare come sia andato a finire nelle forme di formaggio, nei vermi, nei funghi, nei pastori e negli animali. Nei porcellini nati con sei zampe, negli agnelli con un solo grandissimo occhio. 1187 missili MILAN che sono stati lanciati prima del 1999 e hanno riempito la terra di merda chimica, dappertutto. Fosforo bianco che nel 1980 ha ucciso due pastori. Fusti di Napalm sotterrati invece di essere smaltiti. Organi di controllo connessi con le aziende da controllare, che falsificano i dati per dimostrare in un modo o nell’altro che in Sardegna non si muore.

Dopo la deposizione del procuratore, il poligono sembra essere vicino alla chiusura definitiva.

Qui potete ascoltare cosa è successo veramente in quell’angolo di Sardegna negli ultimi 60 anni.

La rivoluzione di Aristan, l’università felice

Logo dell'università di Aristan
Logo dell'università di Aristan

Ieri sera sono andato a Sassari per seguire la presentazione dell’università di Aristan, un progetto che ha fatto molto parlare di sé in questi ultimi mesi perché promette di ritagliarsi un posto di primo piano nell’ambiente culturale alternativo della Sardegna, potendo contare sulla partecipazione di docenti illustri che provengono da settori molto diversi fra loro, dal mondo dello spettacolo al più rigoroso ambiente accademico.

L’idea della facoltà di Scienze della Felicità, corso di laurea in Teoria e Tecniche di Salvezza dell’Umanità, è nata dalla mente di Filippo Martinez (che nell’università sarà titolare della cattedra di regalità), artista sardo e regista del programma tv Sgarbi quotidiani. Martinez parla con orgoglio di un corso destinato agli animi sensibili, finalizzato alla ricerca della felicità in senso lato, così come ad una formazione politica del laureando. Il problema, al giorno d’oggi, è che i ragazzi scelgono i corsi di laurea solo in base a quante opportunità di lavoro questi potranno garantire; mentre è chiaro che se una facoltà non offre alcun titolo riconosciuto ufficialmente, gli studenti non potranno che frequentarla per passione; caratteristica, quest’ultima, che i fondatori offrono a garanzia del livello di studenti, corsi e docenti.

Oltre a Martinez, ieri sera c’erano Michela Murgia, Manlio Brigaglia e Marco Schintu, per presentare i corsi della futura università – per il momento ancora un’utopia, che prenderà vita solo se si raggiunge la quota minima di 380 caparre versate entro natale. Prima ancora di entrare nel merito degli insegnamenti, si parla subito di denaro: €190 l’iscrizione (meglio se in contanti, sconsigliate le transazioni elettroniche), più i costi degli eventuali soggiorni presso la struttura che ospiterà i corsi (l’Horse Country di Arborea), con possibilità di pacchetti vitto & alloggio per il week-end.

Sia Martinez che Murgia intervengono più volte sottolineando il ruolo sovversivo della felicità – contrapposto, evidentemente, a quello più conservatore della seriosità. I docenti, personalità di spicco della cultura sarda e italiana (con qualche eccezione), showmen e filosofi, erano rappresentati da una delegazione che ha improvvisato a braccio le bozze dei programmi: Brigaglia si è gettato nel vortice di un ricordo d’infanzia per introdurre il suo corso (che tra l’altro non ha neppure il titolo scelto dal docente: infanziologia anzichè infantologia, come fa notare egli stesso a Martinez nel corso dela serata), ma quando il racconto è terminato si è capito subito che non c’era altro, se non la dichiarazione di voler utilizzare i ricordi d’infanzia in senso storiografico, sperando che tra gli studenti ci sia qualcuno di età abbastanza avanzata per poter narrare qualcosa di interessante. Schintu, invece, tenta di presentare il suo corso sulla paura, ed esordisce con “però vi parlerò di mio cognato”; poi apre un file powerpoint per aiutarsi, ma più che descrivere il programma elenca una serie di punti che verranno affrontati nelle lezioni, del tipo aspettando l’ambulanza, dando l’impressione di aver abbozzato il tutto non più di una mezz’ora prima.

Il clima è festoso e le risate non mancano; nell’ebbrezza dell’entusiasmo le parole scivolano con facilità, e i docenti chiariscono il motivo portante del progetto, ciò che spinge per far nascere la nuova università. Confesso che ho provato una rabbia feroce nel vedere persone per le quali nutro una grande stima mostrarsi con l’aria di essere state pescate a caso da una lista di nomi, e insistere nel definire politico e sovversivo un progetto che appare frammentario (ogni insegnante farà al massimo tre lezioni di 40 minuti ciascuna, quindi svolgerà piuttosto dei brevi seminari), disordinato (non c’è un filo conduttore che lega i vari insegnamenti, solo l’imperativo di insegnare qualcosa che abbia contribuito alla felicità dei docenti stessi, e in generale il perseguimento della felicità), sostanzialmente di intrattenimento (l’università gioca tutto sui nomi noti e sul loro seguito di discepoli, ma manca completamente un criterio di continuità: non si spiega altrimenti che cosa possa accomunare persone come Michela Murgia e Vittorio Sgarbi; considero questa la premessa più sbagliata dell’esperimento).

Il vero punto dolente della questione, però, è che l’idea viene presentata come sovversiva facendo leva sul discredito della cultura accademica tradizionale, snobbata con sarcasmo in quanto scelta troppo spesso per ragioni utilitaristiche da parte degli studenti, ma fallisce nell’offrire una proposta credibile; l’alternativa indicata è quella di corsi per cui se sono felici i professori saranno felici anche gli studenti, e si appoggia su luoghi comuni quali la distanza fra professori e allievi nelle università vere (che sarà abolita nei miracolosi corsi di Aristan), la natura necessariamente fuori dal comune di chi sceglie, con coraggio e spirito di intraprendenza, di puntare su un esperimento tanto rivoluzionario da non poter essere neppure spiegato come si deve; un clima che, a tratti, mi fa piombare indietro nel tempo a quella volta in cui assistetti sgomento ad un raduno del Rinnovamento dello Spirito Santo. Più laicamente, queste banalità danno un sapore reazionario all’esperimento stesso, almeno a giudicare dalle premesse. È irricevibile la proposta di un corso con confini tanto labili, che si pone lo scopo di sviluppare un discorso politico in tre lezioni a testa, e snobba sulla fiducia il resto della formazione ordinaria (che non potrà mai essere all’altezza di un percorso in cui ognuno dei quaranta tira dalla sua parte). È inaccettabile perché è sostenuta anche da chi impegna quotidianamente la propria credibilità per creare una coscienza politica, questa volta autentica, attraverso il metodico smantellamento di tecniche retoriche e demagogiche che ieri sera, purtroppo, sono state utilizzate in abbondanza; e da professori-istituzioni che sembrano aver trovato più lo svago del fine settimana che la volontà di costruire qualcosa di sensato.

Per finire, ricordo un articolo che lessi qualche anno fa, forse scritto da Gramellini sulla Stampa (ma non ne sono certo). Dietro il microfono dell’aula magna di un’università in cui era stato invitato per fare un intervento, Fabio Volo colpevolizzò con supponenza gli studenti che lo ascoltavano in silenzio, svelando loro che avevano scelto di fare l’università solo in vista di una futura occupazione, o per stare parcheggiati nel limbo a spese dei genitori, e non certo per passione o amore della cultura. Ricordo bene quelle righe: dicevano anche che nessuno degli studenti presenti si fosse alzato in piedi per replicare – signor Volo, io non ci sto: seguo i corsi di questa università e amo ciò che studio, non accetto che qualcuno possa interpretare in modo tanto superficiale i miei intenti e dire stronzate a proposito dei miei sacrifici, né tantomeno che possa parlare a nome mio. Credo che la felicità possa essere difficilmente insegnata o suggerita con qualunquismo come fa lei, ma si trovi nella ricerca del proprio percorso e nel perseguirlo con coerenza e passione, non facendo zapping fra un corso e l’altro, aggiungerei banalmente io.

Fonti:
http://www.aristan.org/
http://www.horsecountry.it/
http://www.ustation.it/articoli/1150-nasce-